Dakar, Senegal, 7 luglio 1992
Banjul, The Gambia, 8 luglio 1992
Un airbus della Sabena mi aveva portato da Milano, via Bruxelles, a Dakar. Ero giunto a sera tardi in aereoporto - intitolato al padre dell'indipendenza senegalese e primo presidente Leopold Sedar Senghor. Avevo poi percorso un chilometro con un taxi ufficiale, il cui conducente, adducendo un guasto non meglio precisato, mi aveva fatto trasferire su di un vecchio Peugeot bianco, guidato da un amico a cui avrei pagato la corsa. Ero infine giunto in albergo a notte inoltrata.
La mattina successiva, ero stato costretto a correre per passare in ambasciata (in realtà poi finirò a casa del funzionario) a firmare delle carte e a consegnare dei documenti. Mentre il tempo passava, pensavo a quanto avevo criticato, in Italia, la scelta di prenotare il volo Air Senegal per Banjul, alle 10 del mattino. Dall'ONG per cui lavoravo mi avevano rassicurato dicendo: " Ti svegli presto, in mezz'ora fai tutto e alle nove e mezza sei in aereoporto, vedrai che pranzi a Banjul". In effetti il concetto del presto è relativo. Io alle 8.30 ero in Ambasciata e dopo una breve attesa, il carabiniere di piantone, mi aveva confermato che il funzionario addetto alla mia pratica sarebbe giunto non prima delle 9.30. Faccio due conti e percepisco, che pur confidando sull'inevitabile ritardo dell'aereo, sono al limite. Alle 9.00 in punto suono alla casa del funzionario dell'ambasciata , fortunatamente distante solo qualche isolato. Mi riceve in pantaloncini corti , per niente contrariato, e mi offre un caffè. Scopro che la mia fiducia assoluta nel prossimo, spesso ripagata, mi ha fatto lasciare tutti i bagagli nel taxi mentre salgo a firmare i documenti, senza aver nemmeno preso un numero di targa o un telefono. Alle 9.30 scendo.... il taxi è sparito! Attimo di panico e esclamazione colorita ed irripetibile ad alta voce. Nel mentre che focalizzo gli scenari possibili, sento qualcuno che mi chiama... il tassista che aveva parcheggiato la macchina all'ombra e fumava, svogliatamente, una sigaretta. Sollievo.
Corsa ai limite del sequestro dell'auto verso l'aereoporto (compensata con mancia adeguata a Bassiru) arrivo al check-in alle 9.55.
Gli aereoporti africani sono un'altra cosa. Lo si capisce dal numero di persone che affollano la hall principale. A vederle sembrerebbero tutti degli scali da cui decollano e atterrano due aerei al minuto. La realtà è ben diversa: la maggior parte delle persone non parte e non arriva, sta.
Faccio il check-in (l'unico aperto a quell'ora, vuoto), l'addetto mi dice: "Imbarco alle ore 13.00". Bene sono in anticipo, grazie a 3 ore di ritardo.
Mi rilasso, mi siedo e aspetto. In Africa aspettare fa parte dell'esistenza quotidiana. Il tempo ha un valore diverso. Non vi è la nostra paura di perderlo, il tempo semplicemente è. Si aspetta che il sole tramonti per proteggersi dalla calura, si aspetta che finisca di piovere o si aspetta che arrivino le piogge, si aspetta il proprio turno in ospedale, in aereoporto, in banca e ovunque. Si aspetta che passi il giorno. Si aspetta qualcuno o qualcosa.
Puntuale alle 15.00 il Bombardier Dash 8, turboelica da 50 posti, si affaccia sulla pista.
Ci avviamo all'imbarco (siamo una trentina di persone, sono l'unico pallido). L'hostess ci riceve sulla scaletta sgranocchiando delle arachidi. Il suo fisico, da far schiattare d'invidia una lanciatrice del peso, stona nel completino verde -bianco della Air Senegal. Sul petto, proprio davanti al prosperoso seno, nel lato destro, una vistosa, e credo indelebile, macchia di unto. Sorride con dei denti bianchissimi, e accoglie tutti con un saluto in francese. Sull'aereo invece, la sua collega, ci offre su di un bicchiere di carta, una aranciata locale gelida.
Mi siedo e per la prima volta in quella giornata, realizzo che mi avvio ad andare in un paese, che non conosco, dove resterò per due anni. E' una sensazione diversa dalle altre partenze o arrivi, dove era netta la sensazione di essere turista e di avere un biglietto per tornare. Mentre l'aereo rumorosamente rulla sulla pista, mi passano gli ultimi quattro mesi della mia vita, cioè quelli trascorsi dal giorno in cui mi è stato proposto di andare in Gambia.
Quando si affronta una cosa che non si conosce, è inevitabile immaginarne possibili sviluppi. Ricordo che a volte sognavo la mia vita in Africa, altre volte - soprattutto nei frequenti spostamenti verso Milano in treno - mi ritrovavo a fantasticare ad occhi aperti la quotidianità in Gambia. Perchè tra partire per un viaggio o per andare a vivere in un luogo, la differenza è proprio nel quotidiano che solo nel secondo caso viene preso in considerazione. Molte volte, mentre mi accingevo a salutare amici, a lasciare amori, a impacchettare la mia casa o a lasciare lavoro e famiglia pensavo ad analoghe situazioni che avrei vissuto. Immaginavo i luoghi della mia vita futura. Dopo quell'esperienza ho un'assoluta certezza: qualsiasi cosa si immagini non ha nessun legame con la realtà e spesso, i timori e le proccupazioni -che inevitabilmente si affacciano nei nostri pensieri - non trovano nessun fondamento.
Mentre ripercorrevo gli ultimi mesi della mia vita, l'aereo con una decisa virata a destra si immetteva nel corridoio della pista dell'aereoporto di Banjul. Osservo dal finestrino un'immagine che, ancora oggi, a quasi vent'anni distanza, mi è chiara e limpida. Terra rossa. Un rosso acceso tra gli alberi.
Scendo dalla scaletta, percorro i pochi metri che mi portano al ritiro bagagli e alle formalità di dogana. Alcuni minuti dopo esco dalla porta di ferro (l'aereoporto di Banjul, allora, era poco più di una casa) e i miei piedi calpestano la terra rossa. Un unico pensiero... sono a casa.
Ecco questo è stato il mio primo pensiero all'arrivo a Banjul, lo ricordo con il sorriso. La terra, un sapore e un odore che ti inebria e il ritmo del tempo, sono l'essenza del primo impatto in Gambia.
La mattina successiva, ero stato costretto a correre per passare in ambasciata (in realtà poi finirò a casa del funzionario) a firmare delle carte e a consegnare dei documenti. Mentre il tempo passava, pensavo a quanto avevo criticato, in Italia, la scelta di prenotare il volo Air Senegal per Banjul, alle 10 del mattino. Dall'ONG per cui lavoravo mi avevano rassicurato dicendo: " Ti svegli presto, in mezz'ora fai tutto e alle nove e mezza sei in aereoporto, vedrai che pranzi a Banjul". In effetti il concetto del presto è relativo. Io alle 8.30 ero in Ambasciata e dopo una breve attesa, il carabiniere di piantone, mi aveva confermato che il funzionario addetto alla mia pratica sarebbe giunto non prima delle 9.30. Faccio due conti e percepisco, che pur confidando sull'inevitabile ritardo dell'aereo, sono al limite. Alle 9.00 in punto suono alla casa del funzionario dell'ambasciata , fortunatamente distante solo qualche isolato. Mi riceve in pantaloncini corti , per niente contrariato, e mi offre un caffè. Scopro che la mia fiducia assoluta nel prossimo, spesso ripagata, mi ha fatto lasciare tutti i bagagli nel taxi mentre salgo a firmare i documenti, senza aver nemmeno preso un numero di targa o un telefono. Alle 9.30 scendo.... il taxi è sparito! Attimo di panico e esclamazione colorita ed irripetibile ad alta voce. Nel mentre che focalizzo gli scenari possibili, sento qualcuno che mi chiama... il tassista che aveva parcheggiato la macchina all'ombra e fumava, svogliatamente, una sigaretta. Sollievo.
Corsa ai limite del sequestro dell'auto verso l'aereoporto (compensata con mancia adeguata a Bassiru) arrivo al check-in alle 9.55.
Gli aereoporti africani sono un'altra cosa. Lo si capisce dal numero di persone che affollano la hall principale. A vederle sembrerebbero tutti degli scali da cui decollano e atterrano due aerei al minuto. La realtà è ben diversa: la maggior parte delle persone non parte e non arriva, sta.
Faccio il check-in (l'unico aperto a quell'ora, vuoto), l'addetto mi dice: "Imbarco alle ore 13.00". Bene sono in anticipo, grazie a 3 ore di ritardo.
Mi rilasso, mi siedo e aspetto. In Africa aspettare fa parte dell'esistenza quotidiana. Il tempo ha un valore diverso. Non vi è la nostra paura di perderlo, il tempo semplicemente è. Si aspetta che il sole tramonti per proteggersi dalla calura, si aspetta che finisca di piovere o si aspetta che arrivino le piogge, si aspetta il proprio turno in ospedale, in aereoporto, in banca e ovunque. Si aspetta che passi il giorno. Si aspetta qualcuno o qualcosa.
Puntuale alle 15.00 il Bombardier Dash 8, turboelica da 50 posti, si affaccia sulla pista.
Ci avviamo all'imbarco (siamo una trentina di persone, sono l'unico pallido). L'hostess ci riceve sulla scaletta sgranocchiando delle arachidi. Il suo fisico, da far schiattare d'invidia una lanciatrice del peso, stona nel completino verde -bianco della Air Senegal. Sul petto, proprio davanti al prosperoso seno, nel lato destro, una vistosa, e credo indelebile, macchia di unto. Sorride con dei denti bianchissimi, e accoglie tutti con un saluto in francese. Sull'aereo invece, la sua collega, ci offre su di un bicchiere di carta, una aranciata locale gelida.
Mi siedo e per la prima volta in quella giornata, realizzo che mi avvio ad andare in un paese, che non conosco, dove resterò per due anni. E' una sensazione diversa dalle altre partenze o arrivi, dove era netta la sensazione di essere turista e di avere un biglietto per tornare. Mentre l'aereo rumorosamente rulla sulla pista, mi passano gli ultimi quattro mesi della mia vita, cioè quelli trascorsi dal giorno in cui mi è stato proposto di andare in Gambia.
Quando si affronta una cosa che non si conosce, è inevitabile immaginarne possibili sviluppi. Ricordo che a volte sognavo la mia vita in Africa, altre volte - soprattutto nei frequenti spostamenti verso Milano in treno - mi ritrovavo a fantasticare ad occhi aperti la quotidianità in Gambia. Perchè tra partire per un viaggio o per andare a vivere in un luogo, la differenza è proprio nel quotidiano che solo nel secondo caso viene preso in considerazione. Molte volte, mentre mi accingevo a salutare amici, a lasciare amori, a impacchettare la mia casa o a lasciare lavoro e famiglia pensavo ad analoghe situazioni che avrei vissuto. Immaginavo i luoghi della mia vita futura. Dopo quell'esperienza ho un'assoluta certezza: qualsiasi cosa si immagini non ha nessun legame con la realtà e spesso, i timori e le proccupazioni -che inevitabilmente si affacciano nei nostri pensieri - non trovano nessun fondamento.
Mentre ripercorrevo gli ultimi mesi della mia vita, l'aereo con una decisa virata a destra si immetteva nel corridoio della pista dell'aereoporto di Banjul. Osservo dal finestrino un'immagine che, ancora oggi, a quasi vent'anni distanza, mi è chiara e limpida. Terra rossa. Un rosso acceso tra gli alberi.
Scendo dalla scaletta, percorro i pochi metri che mi portano al ritiro bagagli e alle formalità di dogana. Alcuni minuti dopo esco dalla porta di ferro (l'aereoporto di Banjul, allora, era poco più di una casa) e i miei piedi calpestano la terra rossa. Un unico pensiero... sono a casa.
Ecco questo è stato il mio primo pensiero all'arrivo a Banjul, lo ricordo con il sorriso. La terra, un sapore e un odore che ti inebria e il ritmo del tempo, sono l'essenza del primo impatto in Gambia.
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