La rivolta popolare, iniziata il 17 dicembre scorso, quanto Mohamed Bouazizi, ambulante laureato di 26 anni, ha deciso di immolarsi (dandosi fuoco, morirà la notte tra il 4 e il 5 gennaio) a sostegno di una causa - la speranza per un futuro - che ha visto coinvolti, contro le gerarchie del paese, centinanio di migliaia di giovani (molti dei quali laureati e disoccupati), di militanti delle opposizioni clandestine, avvocati per i diritti civili, intellettuali, blogger e internauti.
Bisogna dire che quella che molti hanno definito una "rivoluzione laica democratica" e altri "la rivolta del pane" ha avuto due caratteristiche: da un lato ha coinvolto, in un crescendo di aggregazione spontanea, non tanto i partiti organizzati, ma la gente comune - e soprattutto i giovani - che vedono il loro futuro bloccato da una classe politica inefficiente e corrotta, dall'altro che alla repressione durissima del governo (23 morti ufficiali , oltre 60 secondo le opposizioni) vi è stata la temuta (per le autorità) scesa in campo di blogger e internauti, che hanno scavalcato la censura sui media ufficiali (stampa e televisioni) aggiornando sulle violenze e organizzando la rivolta.
Dopo quasi un mese di scontri, 14 gennaio 2010, l'ex generale Zine el Abidine Ben Alì, al potere dal 1987 dopo aver destituito "per malattia" (con l'aiuto dei servizi segreti italiani e di Bettino Craxi) il primo presidente della Tunisia Habib Bourguiba, è stato costretto a fuggire dal paese (nonostante abbia tentato in tutti i modi di "andare incontro" alle richieste, rimuovendo ministri, promettendo lavoro e perfino di non candidarsi alle porssime elezioni del 2014) assieme ai parenti e agli amici che in questi 23 anni si sono arricchiti a scapito della popolazione.
Il potere per ora è nelle mani del primo ministro Mohammed Ghannouchi (destinato a non durare per la troppa continuità con il regime dissolto). Il futuro è incerto e pericoloso. Molte sono le variabili in gioco e i pericoli che si nascondono in chi ha tutti gli interessi nella totale destabilizzazione (estremisti islamici), in chi spera che spera che eliminato Ben Alì si possano sistemare le cose con un restauro di facciata e ai militari che per ora sono rimasti relativamente in disparte, ma che sono l'istituzione più solida del paese.
Vi sono poi altre variabili su cui fare i conti.
Quanto, sulle onde del successo (perchè che piaccia o no, quando la protesta della strada fa dissolvere un regime di vittoria si tratta) la "rivoluzione tunisina" si diffonderà nel Maghreb e oltre? Del resto tra Tunisia, Algeria, Libia, Marocco ed Egitto (ma perchè no, la Giordania) vi sono molte similitudini. Grande quantità di giovani laureati e disoccupati, una classe politica che da decenni guida in modo autoritario il paese, un'opposizione sempre repressa, un aumento per prezzi di consumo non più sostenibili, una corruzione dilagante, leader molto anziani - gerontocrazie come le ha definite Sergio Romano - e una forte istituzione militare sempre più a disagio con i nuovi ricchi.
Come reagiranno le diplomazie occidentali?, che in questi decenni hanno chiuso entrambi gli occhi sui regimi maghrebini (quando non sono stati intimi amici), in cambio o di una spruzzata di gas o di petrolio o di una lotta furibonda all'immigrazione (con qualsiasi mezzo lecito e soprattutto illecito).
Quale sarà l'effetto di un eventuale diffondersi della protesta sui fondamentalisti islamici?, contrari a qualsiasi soluzione "democratica e laica" e disposti a cavalcare lo scontento delle masse popolari soprattutto delle periferie delle grandi città?
Infine, siamo così sicuri che lo scontento dei giovani studenti e laureati del Meghreb, che vedono il loro futuro nero, sia così distante dalla stessa visione cupa che hanno studenti, laureati e lavoratori dell'altra sponda del Mediterraneo?
E' in queste domande (ed altre ancora), a cui è oggi è difficile rispondere con assoluta certezza, che noi riponiamo il futuro dell'intera area del Mediterraneo. Facciamo attenzione a non sottovalutare - anche nei nostri paesi- lo sconforto (e la disperazione) di chi non vede il futuro per se e per i propri figli.
Nelle piazze di Tunisi si urlava "ladri e assassini ridadeci il nostro Paese, basta con la dittatura dei privilegiati"
Dopo quasi un mese di scontri, 14 gennaio 2010, l'ex generale Zine el Abidine Ben Alì, al potere dal 1987 dopo aver destituito "per malattia" (con l'aiuto dei servizi segreti italiani e di Bettino Craxi) il primo presidente della Tunisia Habib Bourguiba, è stato costretto a fuggire dal paese (nonostante abbia tentato in tutti i modi di "andare incontro" alle richieste, rimuovendo ministri, promettendo lavoro e perfino di non candidarsi alle porssime elezioni del 2014) assieme ai parenti e agli amici che in questi 23 anni si sono arricchiti a scapito della popolazione.
Il potere per ora è nelle mani del primo ministro Mohammed Ghannouchi (destinato a non durare per la troppa continuità con il regime dissolto). Il futuro è incerto e pericoloso. Molte sono le variabili in gioco e i pericoli che si nascondono in chi ha tutti gli interessi nella totale destabilizzazione (estremisti islamici), in chi spera che spera che eliminato Ben Alì si possano sistemare le cose con un restauro di facciata e ai militari che per ora sono rimasti relativamente in disparte, ma che sono l'istituzione più solida del paese.
Vi sono poi altre variabili su cui fare i conti.
Quanto, sulle onde del successo (perchè che piaccia o no, quando la protesta della strada fa dissolvere un regime di vittoria si tratta) la "rivoluzione tunisina" si diffonderà nel Maghreb e oltre? Del resto tra Tunisia, Algeria, Libia, Marocco ed Egitto (ma perchè no, la Giordania) vi sono molte similitudini. Grande quantità di giovani laureati e disoccupati, una classe politica che da decenni guida in modo autoritario il paese, un'opposizione sempre repressa, un aumento per prezzi di consumo non più sostenibili, una corruzione dilagante, leader molto anziani - gerontocrazie come le ha definite Sergio Romano - e una forte istituzione militare sempre più a disagio con i nuovi ricchi.
Come reagiranno le diplomazie occidentali?, che in questi decenni hanno chiuso entrambi gli occhi sui regimi maghrebini (quando non sono stati intimi amici), in cambio o di una spruzzata di gas o di petrolio o di una lotta furibonda all'immigrazione (con qualsiasi mezzo lecito e soprattutto illecito).
Quale sarà l'effetto di un eventuale diffondersi della protesta sui fondamentalisti islamici?, contrari a qualsiasi soluzione "democratica e laica" e disposti a cavalcare lo scontento delle masse popolari soprattutto delle periferie delle grandi città?
Infine, siamo così sicuri che lo scontento dei giovani studenti e laureati del Meghreb, che vedono il loro futuro nero, sia così distante dalla stessa visione cupa che hanno studenti, laureati e lavoratori dell'altra sponda del Mediterraneo?
E' in queste domande (ed altre ancora), a cui è oggi è difficile rispondere con assoluta certezza, che noi riponiamo il futuro dell'intera area del Mediterraneo. Facciamo attenzione a non sottovalutare - anche nei nostri paesi- lo sconforto (e la disperazione) di chi non vede il futuro per se e per i propri figli.
Nelle piazze di Tunisi si urlava "ladri e assassini ridadeci il nostro Paese, basta con la dittatura dei privilegiati"
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