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domenica 31 luglio 2011

Libri: Africa. 30 anni di grandi reportages

Africa: 30 anni di grandi reportages e' uno straordinario libro fotografico, frutto dell'esperienza di oltre 30 anni delle fotografe Angela Fischer e Carol Beckwith, pubblicato nel 2004 (2006 in Italia) dalla National Geographic Society. 
Sono scatti bellissimi,che lasciano letteralmente a bocca aperta, accompagnati da note e approfondimenti delle autrici, che per ogni situazione che hanno documentato ne raccontano retroscene e curiosità, talora descrivendo, con puntualità e rigorosità antropologica, riti e momenti di passaggio della vita di molti popoli africani non sempre conosciuti o adeguatamente documentati.
Il libro si apre con una mappa dell'Africa che geolocalizza i luoghi dove, all'interno dei singoli gruppi etnici, sono state effettuate le foto. 
Fotografie dicevamo di una straordinaria bellezza, che pur mantenendo una rigorosità assoluta nella scelta della luce  e dell'inquadratura, non sembrano alterare la naturalezza e l'eleganza dei soggetti ritratti.
Gli scatti sono tutti di soggetti umani, spesso in contesti rituali o di celebrazioni. Non mancano però particolari e attimi di una cultura che a volte sembra appartenere ad un tempo lontano.
Un libro da sfogliare e risfogliare, perchè ogni volta ci si accorge di diversi particolari che fanno della lettura di Africa un viaggio senza fine.

"Speriamo - scrivono le autrici - attraverso le nostre immagini, di poter restituire almeno in piccola parte quello che l'Africa ha dato a noi e che la nostra opera documentaria possa contribuire a preservare un ricco retaggio non solo per le future generazioni di africani, ma per il mondo intero"


Angela Fischer e Carol Beckwith (australiana la prima, americana la seconda) sono due fotografe e scrittrici che per oltre 30 anni hanno percorso l'Africa dal Nord al Sud, documentando immagini di riti e cerimonie in 36 paesi africani ed in oltre 150 gruppi etnici differenti. Un lavoro minuzioso di documentazione che, anche grazie ad una tecnica straordinaria, ci permette di avere immagini meravigliose del continente africano.
Il loro incontro è avvenuto, appunto 30 anni fa, mentre entrambe fotografavano i Masai. Da allora lavorano in team.






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venerdì 29 luglio 2011

La nostra tazza di caffè

Il caffè è la seconda materia prima scambiata al mondo (dopo il petrolio e prima del grano). Rappresenta il 4% del commercio mondiale. In Africa, stando ai dati del 2010 dell'International Coffee Organization (ICO, nata nel 1963), si produce circa il 13% del caffè mondiale.
Un mercato, quello del caffè, che in alcuni paesi africani (Etiopia, Uganda e Costa d'Avorio in testa), rappresenta una delle principali fonti di entrate. Proprio qualche giorno fa, l'Associazione degli esportatori etiopici di caffè ha annunciato che quest'anno il giro d'affari ha toccato la quota record di 842 milioni di dollari, con un incremento del 59% rispetto alla stagione precedente. L'Etiopia è il quinto produttore mondiale di caffè e il primo africano.
La piante del caffè (genere Coffea) ha origine africana. Sebbene vi siano centinaia di specie, sono 4 (le prime due in particolare) quelle che sono coltivate su larga scala: l'Arabica (Coffea arabica) di origine etiopica, coltivata tra i 1000 e i 2000 metri), la Robusta (Coffea canephora) originaria dell'Africa tropicale (Uganda e Guinea), coltivata anche sotto i 700 metri, la Liberica (Coffea liberica) originaria dell'Africa occidentale e la Excelsa (in realtà varietà della liberica). Dall'Africa le coltivazioni furono trasferite dagli europei (spesso assieme agli schiavi), dalla fine del 1600, in Indonesia (oggi quarto produttore al mondo), in Brasile (primo produttore al mondo) e successivamente in Colombia (terzo produttore al mondo) e in Vietnam (secondo produttore al mondo), oltre che in Centroamerica e in India.
A consumare il caffè naturalmente non sono gli africani. Il primo paese importatore di caffe (sempre stando ai dati dell'ICO) è la Germania con 20,6 milioni di sacchi (ogni sacco equivale a 60 chilogrammi), seguita dall'Italia (8,2 milioni di sacchi) e dal Giappone (7,3 milioni di sacchi).

La coltivazione del caffè è faticosa e complessa. La pianta ha bisogno di almeno quattro anni prima di diventare produttiva. I frutti, che maturano in tempi diversi, sono raccolti a mano quotidianamente, sbucciati, separati (i chicchi dalla polpa rossa), macerati  ed infine essiccati. 
Si stima che tra i 20 e i 30 milioni di persone sopravvivono grazie al caffè.
Il commercio mondiale è nelle mani di una ventina di multinazionali (solo una è di un paese produttore, il Brasile) che controllano i prezzi. Storicamente il mercato del caffè è instabile (ovvero lo è dal 1989, quando gli accordi che disciplinavano le quote massime tra i produttori sono saltati) e vi sono state annate in cui il mercato pagava il caffè meno dei costi di produzione! La speculazione, nemmeno a dirlo, è padrona.
Comunque anche quando le cose vanno bene, si è calcolato che dell'euro che noi spendiamo per il caffè al bar, solo 6 centesimi vanno nelle tasche dei produttori.

Il vero problema è che l'Africa (e in genere tutti i produttori che appartengono all'area dei cosiddetti Paesi in via di Sviluppo) produce solo la materia prima e non ha marchi del caffè al dettaglio. Finchè non si svilupperà localmente un'industria capace di lavorare e commercializzare la materia prima, non vi sarà quello sviluppo che da più parti si invoca per l'Africa (ma non solo). E' chiaro  che questo sviluppo si scontra fortemente con gli interessi economici di chi acquista, praticamente per nulla, la materia prima, la porta nel proprio paese, la lavora e vende il prodotto con margini di guadagno enorme.
L'Etiopia, alcuni anni fa, tentò di registrare negli Stati Uniti, i nomi delle sua qualità prestigiose di caffe (ad esempio Sidamo e Harar). Lo scopo era quello di non vendere solo il prodotto, ma bensì anche il marchio (allora si stimava che gli introiti sarebbero aumenti del 50%). L'operazione fu bloccata dall'Associazione Nazionale del Caffè americano che invece chiedeva l'assenza di diritti sui chicchi di caffè. Ne nacque una disputa che coinvolse la multinazionale del caffè Starbucks e l'Organizzazione non governativa Oxfam International, che ancora oggi, nonostante la multinazionale sia stata costretta a firmare un accordo con il governo etiopico, continua in tutto il mondo una campagna per la tutela dei coltivatori di caffe (e non solo).

Come avevo sottolineato anche nel recente post sulla carestia nel Corno d'Africa, la necessità di tutelare le popolazioni locali e di appoggiarle nelle loro lotte è uno degli imperativi degli anni a venire. . Si moltiplicano le iniziative che organizzazioni e popolazioni locali mettono in campo in quasi ogni angolo del pianeta. Noi tutti abbiamo il compito di portarle alla luce, di farle emergere da quella semi-oscurità a cui il sistema economico tende a relegarle. E' l'unica possibilità per invertire quella rotta che da decenni vede l'Africa come il luogo dove si concentrano le peggiori catastrofi e le più orrende vicende di cui occuparsi solo quando i nostri occhi si riempiono di lacrime.





giovedì 28 luglio 2011

Musica: Abdullah Ibrahim (Dollar Brand), il jazz dal Sudafrica

Abdullah Ibrahim pianista (in realtà suona anche il sassofono, i flauti e il violoncello) e compositore sudafricano (nato a Cape Town nel 1934) è conosciuto anche con lo pseudonimo di Dollar Brand. In realtà il suo vero nome è Adolph Johannes Brand, ed è forse la massima espressione jazzistica africana.
Cresce ascoltando musica tradizionale africana, gospel, canti religiosi e jazz. A 7 anni riceve le sue prime lezioni di piano e già a 15 anni è un professionista della musica. Gli incontri sono fatali nella sua vita: quello nel 1959 con il sassofonista Kippi Moeketsi, che lo convince a dedicare la propria esistenza alla musica e quello con la cantante jazz sudafricana Sathima Bea Benjamin, che diventerà la sua compagna della vita (i due sono i genitori della rapper americana Jean Grae). Fonda la sua prima band bepop, The Jazz Epistles, alla fine degli anni '50, sostituita poco dopo dal Dollar Brand Trio, nato nel 1958. A seguito del massacro di Sharpeville (21 marzo 1960) la situazione nel paese si complica. Nuove e assurde leggi volute dal regine razzista impediscono a neri e bianchi di suonare insieme. Nel 1962, quando anche l'African National Congress (ANC) viene bandita, Dollar Brand e la moglie si trasferiscono in Europa a Zurigo, dove vengono apprezzati da Duke Ellington, con cui iniziano una lunga collaborazione. Nel 1965 si trasferiscono a New York, città dove si incontrano le strade di musicisti jazz di mezzo mondo. Nel 1968 Dollar Brand torna in Sudafrica e si converte all'Islam, assumendo il nome di Abdullah Ibrahim.




Nel 1976, a seguito del massacro di Soweto, la famiglia (nel frattempo erano nati due dei loro figli) si trasferisce nuovamente a New York. Faranno ritorno in Sudafrica (dove ancora vivono, a Cape Town, pur con frequenti periodi a New York) solo nel 1990 a seguito della liberazione di Nelson Mandela e dopo aver risposto al suo esplicito invito a tornare in patria. Oggi Abdullah Ibrahim oltrea a continuare a suonare e comporre è impegnato nella formazione dei giovani musicisti sudafricani.

Il suono del suo piano risente dell'influenza di Thelonious Monk e di Duke Ellington, che sono alla base della formazione stilistica del pianista sudafricano. Ma oltre jazz e ai suoni della tradizione africana, la musica di Abdullah Ibrahim risente della grande religiosità che ha sempre accompagnato la sua vita, culminata con la conversione all'islam, e del profondo legame con la cultura orientale, oggetto dei suoi studi giovanili. Oltre ad aver pubblicato a partire dagli anni '60 una grande quantità di lavori, ad aver scritto la colonna sonora del film Chocolat di Claire Denis, Abdullah Ibrahim ha suonato e collaborato con gli uomini che hanno scritto la storia del jazz nel mondo: Duke Ellington, John Coltrane, Ornette Coleman, Billy Strayhorn, Archie Sheep, Max Roach, Elvin JonesDon Cherry, Dexter Gordon e Gato Barbieri. Egli stesso rappresenta uno dei tanti uomini (molto poche, purtroppo, le donne) che hanno impreziosito e reso fantastica la musica jazz.

Ecco il sito ufficiale di Adullah Ibrahim
Vi posto inoltre questo interessantissimo articolo su Abdullah Ibrahim apparso nel 2001 sul The Guardian, a firma di Maya Jaggi, intitolato The sound of freedom.

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martedì 26 luglio 2011

Siccità, carestie e ipocrisie

Nelle ultime settimane è prepotentemente scoppiata, sotto gli occhi attoniti del mondo intero, l'emergenza umanitaria nel Corno d'Africa. In molti si sono accorti che un numero elevato di individui (milioni di persone), per lo più donne e bambini, stanno letteralmente morendo di fame in un angolo non tanto remoto del nostro pianeta. Qualcuno ha perfino scoperto che la Somalia è da vent'anni in una situazione di totale anarchia e che guerra e carestia si mescolano formando una miscela esplosiva.
Ieri un summit convocato in emergenza alla FAO a Roma ha ancora una volta ribadito che servono milioni di dollari - almeno 120 - per soccorsi "urgentissimi" e 1,6 miliardi di dollari per i prossimi 12 mesi. Molti degli Stati e alcune organizzazioni internazionali hanno promesso stanziamenti ingenti per l'emergenza e per progetti a lungo termine nel campo dell'alimentazione e dell'agricoltura. Domani a Nairobi, in Kenya, queste disponibilità dovranno essere confermate.
Nella riunione di ieri però il Ministro dell'Agricoltura francese Bruno Le Maire (la Francia è presidente di turno del G20) ha ammesso, sue testuali parole, che la "comunità internazionale ha fallito nel costruire la sicurezza alimentare nei paesi in via di sviluppo". E' l'ammissione del fallimento di decenni di politiche economiche in Africa (di cui FAO e Banca Mondiale sono stati i maggiori interpreti e quindi responsabili) costate la vita di milioni di persone e cifre inimmagginabili.

Le parole di Le Maire, che sono macigni lanciati in un momento di grave crisi (quindi meno evidenti a fronte del dramma umano), contengono l'essenza di gran parte dei problemi d'Africa e rappresentano quel comune sentire di chiunque si sia interessato d'Africa. Il ritornello, per usare le parole di le Maire, "se non vogliamo ritrovarci tra due anni davanti alle stesse scene di disperazione, dobbiamo cambiare metodo, non basta fornire aiuto finanziario, non basta portare milioni di dollari qua e là. Bisogna investire nell'agricoltura mondiale, aiutare i Paesi in via di sviluppo a sviluppare la propria sicurezza alimentare", rappresenta per molti una nenia che ascoltiamo da decenni e che francamente indigna.
Ora si scaricano tutte le responsabilità sulla natura, che ingenerosa nei confronti degli uomini, sempre degli ultimi, si accanisce nel Corno d'Africa  facendo mancare l'apporto delle piogge. Certo gli studiosi del clima sostengono che alcuni importanti cambiamenti climatici sono in corso e che la siccità potrebbe avere relazioni con correnti oceaniche e che quindi parte della catastrofe è attribuibile alla natura.

Ciò non toglie che vi sono questioni che da decenni organizzazioni non governative, ambientalisti, popolazioni locali e studiosi denunciano con insistenza e che restano irrisolte e inascoltate. Come è il caso del fenomeno del land grabbing, ovvero delle terre in affitto o acquistate (e sottratte alle popolazioni locali) dalle multinazionali per produrre biocarburanti o prodotti alimentari da esportare e di cui la FAO si occupa da anni (la prossima conferenza internazionale si terrà dal 17 al 20 novembre a Nyeleni in Mali) senza avere il coraggio di trovare soluzioni definitive che mettono fine a questo scempio. Proprio su questo tema qualche giorno fa, mentre migliaia di persone muoiono di fame, vi è stata una denuncia di Survival International su terre fertili in Etiopia sottratte alle popolazioni locali e che chiama in causa anche imprese italiane.
Così come non possono essere trascurate le continue denunce sulla pericolosità delle deviazioni di corsi di fiumi per costruire enormi impianti di produzione eletttrica che sottraggono acqua alle popolazioni locali e che hanno contribuito a peggiorare il quadro idrico dell'intera regione.
Sono state inascoltate le proposte dei movimenti contadini (Via Campesina in testa) sulla necessità di regolamentazione del mercato agricolo mondiale atte ad impedire la speculazione finanziaria sulle derrate alimentari.

Questi e altri temi (come ad esempio i costi esagerati della gestione dei grandi organismi internazionali) sono alla radice delle carestie ed è disumano continuare, da anni, a non affrontarli.

In Africa si interviene solo nelle emergenze. Vi una rassegnata, e talvolta consapevole, consuetudine di attendere la catastrofe prima di intervenire, di lasciare sedimentare e "cronicizzarsi" situazioni che altrove griderebbero allo scandalo e indignerebbero l'opinione pubblica. Gli africani sopportano con dignità e fatalismo. Assistono, oramai senza lacrime, alla morte dei propri figli, vedono la propria terra seccarsi e morire, abbandonano la propria casa e vivono pensando che il domani forse non verrà.

Certo guardando le immagini dei campi profughi del Kenya oggi vi è la consapevolezza che bisogna intervenire, subito. Lo stanno facendo e lo continueranno a fare, con capacità e passione, centinaia di volontari e di organizzazioni che sono sul campo, che raccolgono fondi e che tentano, in condizioni disperate, di alleviare le sofferenze di chi non ha colpe. In attesa di una nuova catastrofe.

lunedì 25 luglio 2011

Le timbila dei Chopi del Mozambico

Le Timbila (plurale di Mbila) sono degli strumenti musicali del genere degli xilophoni, dell'etnia Chopi della provincia Inhambane del sud del Mozambico. Sono suonati in larghi gruppi (orchestre), fino a 10-30 strumenti, all'interno di cerimonie accompagnate da danze e drammi storici. Le orchestre sono composte da suonatori d diverse età, dagli anziani maestri ai bambini apprendisti.
Nel 1969 Bruno Nettl della Harvard University ha definito quella dei Chopi "il più sofisticato metodo compositivo mai trovato tra i popoli pre-letterati".
Sono strumenti finemente lavorati in legno (il legno è quello di un arbusto della famiglia delle Achillee, chiamato localmente mwenje) di dimensioni e tonalità differenti. Sotto le tavole di legno sono riposte le casse di risonanza, costituite da calabash, una sorta di zucca a forma di bottiglia, chiamata in portoghese porongo, che vengono intrise di cera d'api e ricoperte con olio di un frutto, chiamato nkuso.




Nel 2005 le Timbila sono stati dichiarati Patrimonio Immateriale dell'Umanità dall'UNESCO per la loro unicità e caratteristiche, oltre per il reale pericolo di abbandono della loro costruzione e uso.
Da allora la comunità si è posta alcuni obiettivi di salvaguardia della tradizione, tra cui: a) favorire il passaggio alle nuove generazioni dell'arte della costruzione delle Timbila, b) favorire l'accesso alla documentazione scientifica, c) creare opportunità di incontro e di scambio tra i suonatori di Timbila, d)favorire la tutela legale e l'interesse economico verso la tradizione della musica orchestrale dei Chopi.


Vai alla pagina di Sancara sui Patrimoni Immateriali dell'Umanità in Africa

sabato 23 luglio 2011

Parco Nazionale di Ichkeul

Il Parco di Ichkeul si sviluppa attorno all'omonimo lago vicino alle coste mediterranee della Tunisia e deve la sua notorietà (e salvaguardia) al fatto che rappresenta un punto di sosta degli uccelli migratori tra i quali anatre, cicogne, fenicotteri e oche, che si spostano dall'Europa verso l'Africa e viceversa. Nel 1977 è diventata area protetta e riserva della biosfera e dal 1980, per le sue caratteristiche, il sito è stato inscritto tra i Patrimoni dell'Umanità UNESCO.
Dista circa 25 chilometri da Bizerte e si estende su di una superficie di 12.600 ettari, di cui il lago occupa da 8.600 a 11.000 ettari a secondo della stagione. La profondità del lago varia dai 2,5 metri in inverno al metro in estate. Il Parco comprende una collina, Jebel Ichkeul, alta 510 metri. Stando ad alcune stime sono oltre 200 mila gli uccelli provenienti dall'Europa (in passato anche 400 mila) che sostano in questa area. In uno studio del 1986 furono identificate 226 specie di uccelli, di cui 34 residenti: un vero paradiso ornitologico. E' una tipica macchia mediterranea, abitata anche da alcuni mammiferi tra cui la lontra europea, il gatto selvatico e il cinghiale.
Tra il 1996 e il 2006, a causa delle dighe costruite lungo gli immissari del lago, il sito è stato inserito nella lista dei patrimoni a rischio. Purtroppo la situazione si è radicalmente modificata, la ridotta portata dei fiumi ha alterato, forse per sempre, l'ecosistema. La salinità dell'acqua è notevolmente cresciuta assieme all'aumento di piante acquatiche adatte all'acqua salata. Si teme un netto calo degli uccelli migratori che vedono diminuire l'acqua dolce e i vegetali. Nelle due immagini satellitari a lato, scattate quella in alto nel 2001 e quella in basso nel 2005, mostrano l'incremento delle piante acquatiche nel lago (in rosso).

Vi posto questo interessante approfondimento sul Parco.

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giovedì 21 luglio 2011

Popoli d'Africa: Karamojong

Il gruppo etnico dei Karamajong vive nel nord-est dell'Uganda, nella regione denominata Karamoja, un altopiano arido mediamente sopra i 1000 metri. Dagli ultimi censimenti non superano il numero di 300 mila. Originariamente pastori semi-nomadi (seguono il bestiame negli sposamenti, ma lasciano una base abitativa fissa), da tempo hanno sviluppato una forte propensione all'agricoltura (sorgo, tabacco e miglio) praticata esclusivamente dalle donne. Sono considerati dei "razziatori" di bestiame, per il fatto che anche tra di loro, oltre che con i vicini, si sottraggono il bestiame per ripristinare la mandria originaria. Del resto la dipendenza, non solo economica, dal bestiame è totale.
Il loro territorio, confinante con il Sud Sudan, è stato fortemente condizionato dagli eventi derivati dal conflitto sudanese e in parte alla ribellione dell'Esercito di Resistenza del Signore. E' stata una zona fortemente invasa da armi (su questo tema vi segnalo questo interessante lavoro di Ben Knighton delll'Università di Oxford sulle armi dei karamojong) a tal punto che lentamente i karamojong hanno sostituito armi automatiche alle tradizionionali frecce, scatenando veri e propri conflitti armati con i vicini, anche oltre confine.
La loro lingua appartiene al gruppo centrale delle lingue nilotiche e ha molte similitudini con lingue che si parlano in Kenya nei pressi del lago Turkana. Infatti secondo alcuni antropologi il gruppo originario è migrato verso il 1600 dalla regione etiopica, dividendosi poi in due tronconi uno verso l'attuale Kenya e l'altro, costituito dai karamajong, verso il nord dell'Uganda.
Sono organizzati in clan patrilineari retti da un consiglio di anziani e suddivisi per classi d'età.
Non è molto comune la circoncisione, mentre è molto praticata la scarificazione rituale.
I Karamojong sono senz'altro l'etnia dal più basso indice di sviluppo di tutta l'Uganda.

Tra i maggiori studiosi del popolo karamojong vi è stato il sacerdote missionario comboniano veronese Bruno Novelli (1936-2003), che ha speso praticamente ininterrottamente oltre 20 anni (dal 1971 al 1995) tra i karamojong, studiandone la lingua e la religiose. Nel 1985 ha pubblicato una grammatica della lingua karamojong.
Ecco un link su Google books, con uno dei testi di Novelli sulla religione dei karamojong (in inglese).

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Libri: Storia dell'Africa nera: un continente tra la preistoria e il futuro

L'opera del burkinabè Joseph Ki-Zerbo, pubblicata in Francia nel 1972 e, tradotta in italiano, pubblicata da Einaudi nel 1977, rappresenta una pietra miliare della storiografia africana, scritta da uno dei padri di questa disciplina.
Sin dai tempi dei primi navigatori, dei missionari e degli esploratori l'immagine dell'Africa e la sua storia sono state raccontate solo con gli occhi, parziali e fitti di preconcetti, dei bianchi. Per secoli hanno raccontato di un territorio immenso abitato da uomini preistorici, antroprofagi e senza anima, che dovevano essere addomesticati ed educati come le fiere di un circo. Solo nella seconda metà del novecento il cosiddetto mondo civilizzato è venuto a conoscere che l'Africa fu abitata fin dai primordi da grandi e importanti Imperi ed, ironia della sorte, i paleontologi hanno perfino reso noto che la culla della civiltà, il luogo d'origine della specie umana, si trova nell'Africa nera.
Quest'opera di Ki-Zerbo racconta quindi un'altra Africa, diversa dallo stereotipo dell'epoca e con riflessioni e studi che, in antitesi con la storiografia dell'epoca, hanno cambiato per sempre il rapporto tra l'Africa e la sua storia. Egli affermava che "l'Europa della colonizzazione ha il dovere di restituire all'Africa quello che gli ha rubato: soprattutto la sua cultura, le sue tradizioni, la sua storia, oltre che le sue risorse".

Joseph Ki Zerbo era nato in Burkina Faso (prima Alto Volta) nel 1922. E' ritenuto uno dei maggiori intellettuali africani. Cresce in un mondo contadino fino a 11 anni, studia nelle scuole missionarie tra l'odierno Burkina Faso e il Mali. Sarà poi a Dakar, dove oltre ad insegnare è impiegato alle ferrovie. Ottiene la maturità a 27 anni e grazie al buon profitto vince una borsa di studio alla Sorbona di Parigi, dove si reca nel 1949. Entra in politica nell'Associazione dei studenti africani in Francia e nel sindacato, maturando il pensiero anti-colonialista e socialista. Sposa Jaqueline Coulibaly (figlia di un sindacalista maliano). E' professore di storia a Parigi e poi a Dakar. Nel 1957 fonda il Movimento di Liberazione Nazionale (MLN), che su base socialista, lotta per l'immediata indipendenza e contro il referendum voluto da De Gaulle nelle colonie francesi. Il no al referedendum vince solo in Guinea (che diventa indipendente) e Ki-Zerbo, assieme alla moglie viene chiamato dal presidente Sekou Tourè a sostituire gli insegnanti francesi richiamati in patria. Resterà in Guinea fino al 1960, quando rientrerà in Alto Volta. Insegna a Ouagadougou e inizia a pubblicare scritti inerenti la storia e la cultura africana, culminati con la pubblicazione, del 1972, della sua opera maggiore, Historie de l'Afrique noir, des origines a nos jours. Partecipa alla tormentata vita politica dell'Alto Volta. Dal 1972 al 1978 lavora, come coordinatore del progetto per l'UNESCO alla monumentale Historie generale de l'Afrique.
Nel 1983 fu costretto all'esilio a Dakar (rientrerà solo nel 1992), come principale leader d'opposizione, da Thomas Sankara. Questo fu un grande errore di Sankara (come ha avuto modo di scrivere Pier Maria Mazzola nel capitolo dedicato a Ki-Zerbo nel suo Leoni d'Africa, "Nessuno è perfetto. E non lo fu nemmeno in mitico Thomas Sankara") . Che oltre ad esiliare Ki-Zerbo (tentò poi invano di farlo rientrare) non impedì che la sua biblioteca, di oltre 11 mila volumi, fosse data tristemente alle fiamme.
Rientra, sempre accompagnato dalla moglie, nel Burkina Faso nel 1992, fonda il Partito per la democrazia e il progresso (PDP) che nel 1997 supera il 10%. Ki Zerbo, divenuto deputato, rassegna le dimissioni nel 1998 a seguito dell'assassinio del giornalista Norbert Zongo.
La lunga e intensa vita di Ki-Zerbo finì a Ouagadougou, nel dicembre del 2006. Ecco un post su Unimondo, il giorno seguente alla sua morte.
Qualcuno ha scritto che "per molti africani e per l'Africa, il solo nome di Ki-Zerbo è un modo per andare alle fonti della propria identità, di guardare al proprio passato come una risorsa per il futuro".

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mercoledì 20 luglio 2011

Musica: Geoffery Oryema

Geoffery Oryema è un cantante e chitarrista ugandese. Nato a Soroti il 16 aprile del 1953, di etnia Acholi. Il padre di Geoffery, Erinayo Wilson Oryema fu il primo ispettore generale di Polizia dell'Uganda e nel 1971, quando Idi Amin prese il potere, fu nominato Ministro della Terra, delle Miniere e delle Risorse Idriche. Era ancora nelle sue funzioni di Ministro, quando il 16 febbraio 1977 fu arrestato assieme all'arcivescovo Janani Luwum e al Ministro degli Interni Charles Ofumbi. Accusati di essere al servizio del presidente deposto Milton Obote e di preparare un golpe, furono torturati e giustiziati il giorno seguente (ufficialmente per il governo morirono in un'incidente d'auto). Geoffery fu costretto a scappare dal paese (aveva 24 anni) con una rocambolesca fuga in auto.
Andò a vivere definitivamente in Francia, a Parigi (già da tempo faceva frequenti spostamneti a Parigi) che divenne la sua terra di adozione. In Francia la sua formazione fu legata al teatro (Accedemia di Arte Drammatica e il "Theatre Limited"), alla musica (la Circus Company della figlia di Chaplin, Victoria), la musica tradizione ugandese e il karate shotokan. Già da anni scriveva testi teatrali, tra cui uno "The Reign of Terror", sulle atrocità di Idi Amin in Uganda.
Negli anni '80, per mantenersi, lavorò come tecnico del computer presso The International Herald Tribune.
Venne in contatto con il WOMAD (World of Music Art and Dance) di Peter Gabriel e nel 1990, Brian Eno produsse il suo primo album Exile.



Un brano di quel disco, Yè Yè Yè (nel video), raggiunse il successo (che gli valse poi un disco d'oro) perchè scelto da un noto talk show francese. Da allora la sua carriera ebbe un percorso in discesa. Invitato da Peter Gabriel partecipò al grande concerto per la liberazione di Nelson Mandela, assieme ai più grandi artisti africani e internazionali.
Innumerevoli furono poi le collaborazioni con artisti francesi, tra cui la colonna sonora del film di Hervè Palud Un indiano in città (1994), poi con artisti russi e infine con i maggiori artisti africani, partecipando al Live 8 Africa Calling.
La sua intensa e qualitativa attività gli è valsa, nel 2000 la legione d'onore francese per l'arte.
Nel corso della sua carriera ha partecipato a numerose raccolte di fondi per progetti approntati e sostenuti da organismi internazionali sull'Africa e in particolare per la lotta contro i bambini soldato.
Canta in acholi e swahili, oltre che in francese e in inglese.

Ecco il sito ufficiale di Geoffery Oryema su cui è possibile approfondire la sua biografia e la sua arte.

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martedì 19 luglio 2011

Cinema: Grido di libertà

Il film Grido di Liberta', diretto dall'inglese Richard Attenborough nel 1987, traduzione non molto fedele di Cry Freedom narra dello stretto rapporto di amicizia tra un giornalista bianco sudafricano, Donald Woods (interpretato nel film da Kevin Kline), e l'attivista nero sudafricano Steve Biko (interpretato nel film da Denzel Washington), ucciso in carcere nel 1977.
Il film, che è tratto da due libri pubblicati dallo stesso Woods (il quale fu coinvolto, assieme alla moglie Wendy, alla realizzazione del film), si può schematicamente dividere in due parti. La prima narra del rapporto tra i due e si conclude con la morte di Biko. La seconda parte narra invece le vicende del giornalista costretto alla fuga, assieme alla sua famiglia, per aver denunciato il governo sudafricano per l'assassinio in carcere di Biko. Il suo esilio a Londra durerà fino al 1994.
Un film di denuncia, in uno stile "molto inglese" e liberal, con alcuni momenti intensi e forti, e altri forse troppo lenti e lunghi. Un film, che come spesso capita per l'Africa, ha avuto il grande pregio di far conoscere al mondo, una delle drammatiche storie della segregazione razziale in Sudafrica.
Il film non potè essere girato in Sudafrica (il regime razzista era ancora saldamente al potere) e fu quindi girato in Zimbabwe, aparte alcune piccole scene in Kenya.

Steven Bantu Biko, cristiano di di etnia xhosa, era nato nel 1946 in Sudafrica. Studente di medicina all'Università del Natal, era diventato un leader studentesco del movimento antisegregazionista sudafricano. Alla fine degli anni '60 partecipò alla nascita del Black Consciousness Moviment, di cui divenne leader. Espulso per la sua attività politica dall'Università nel 1972. Nel febbraio 1973 il regime sudafricano lo mise in una condizione di "isolamento forzato": gli fu proibito di incotrare più di una persona alla volta, di parlare con i giornalisti, di avere pubblica vita, così come fu proibito a chiunque di riportare sue parole o suoi scritti. Nonostante le restrizioni l'attività del movimento e di Biko non si fermarono. Furono tra i protagonisti delle protesta di Soweto, che sfociò nella violenta repressione, e nel massacro del 16 giugno 1976.
Il 18 agosto 1977 Steve Biko fu arrestato. Interrogato e torturato per 22 ore consecutive. Quell'interrogatorio si concluse con un forte colpo al cranio (presumibilmente dovuto ad una sbranga di ferro) che lo ridusse in coma. L'11 settembre, dopo quasi un mese di agonia, fu deciso il suo trasporto a Pretoria, dove si trovava un carcere con un ospedale. Il viaggio, quasi di 1200 chilometri, fu fatto in auto. Il giorno dopo, il 12 settembre 1977, Steve Biko esalò il suo ultimo e forse incosciente respiro. Aveva 31 anni. Il governo sostenne che la sua morte fosse stata determinata da un prolungato sciopero della fame, ma l'autopsia confermò l'omicidio per tortura (emorragia cerebrale da forte contusione e altro). La verità sulla morte di Biko si deve al lavoro di due giornalisti bianchi Donald Wodds e Helen Zille, oggi affermata politica sudafricana.



Donald Woods, sudafricano bianco (di quinta generazione) nato nel 1933, era capo editore del Daily Dispatch (giornale moderato su posizioni anti-apartheid, ma allo stesso tempo contrarie al movimento di coscienza nera), quando nel 1965 incontrò Steve Biko (grazie a Ramphela Mamphela, "amante" di Biko nonchè medico e attivista del Black Consciousness Movement). Da quel giorno e fino all'assassinio di Biko, i due ebbero una interensa relazione di amicizia e di stima.
Dopo i fatti di Soweto del 1976 fu costretto agli arresti domiciliari dal governo. Dopo la morte di Biko, riuscì a fotografare il corpo martoriato e a denunciare l'omicidio. Fu costretto alla fuga dal suo paese verso Londra, via Lesotho, assieme alla famiglia. Dove rimase in esilio fino al 1994. Continuò la sua attività contro l'apartheid (nel 1978 fu anche il primo non diplomatico a parlare nel Consiglio di Sicurezza dell'ONU). Ritornò in Sudafrica nel 1994 all'elezione di Nelson Mandela alla presidenza.
Morì di cancro il 19 agosto 2001.

It is better to die for an idea that will live, than to live for an idea that will die (Steve Biko).

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lunedì 18 luglio 2011

Catastrofe umanitaria nel Corno d'Africa

Qualcuno l'ha già definita una catastrofe. Quella che è in corso (non da oggi, sia chiaro) nel Corno d'Africa è secondo gli esperti la più grave siccità degli ultimi 60 anni. L'ultima grave carestia nell'area risale al biennio 1984-85 e fece più di un milione di morti. L'area interessata che comprende Somalia, Etiopia, Kenya e Sud Sudan è molto vasta e mette a rischio una popolazione tra i 10 e i 13 milioni di individui. Dopo due anni di scarsità delle piogge, oramai la popolazione è allo stremo.
E' chiaro che l'emergenza maggiore si verifica in Somalia, dove alla grave situazione idrica (e quindi alimentare, dove il grano è arrivato a costare il 100-200 % in più), si associano vent'anni di anarchia sociale, politica e militare in un paese dimenticato da tutti.
Come avviene durante le siccità, la produttività delle terre si riduce (in alcune zone si è dimezzata o addirittura annullata), le popolazioni sono costrette, per sopravvivere, a vendere il bestiame. Prima si vendono pecore e capre, che non contribuiscono alla produzione agricola, poi vitelli, cavalli e asini e infine i buoi, che ovunque sono alla base della ricchezza familiare. La perdita del bestiame, riduce la disponibilità di fertilizzanti per l'agricoltura. A questo punto il ciclo della miseria è chiuso. Non resta che migrare alla ricerca di nuove fonte di reddito o verso i campi profughi.
In questi giorni, dalla Somalia, circa 1400-1500 persone al giorno varcano i confini verso il Kenya alla ricerca di assistenza. Si stima che un quarto della popolazione della Somalia sia in fuga dalla propria terra. Il campo profughi di Dadaab (nella foto aerea in basso), ad oltre 80 chilometrui dalla frontiera somala, (costruito nel 1991 allo scoppio della crisi somala) oggi accoglie circa 400 mila rifugiati, quattro volte oltre le sue potenzialità.
Il campo è gestito dall'Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati (UNHCR), assieme ad organizzazioni umanitarie di varie nazioni e di varie matrici religiose. Uno sforzo enorme sostenuto anche dal governo kenyota, che proprio in questi giorni ha dato l'autorizzazione all'apertura del nuovo campo IFO II (iniziato a costruire nel 2008), capace di contenere altri 90 mila profughi. Per la sua azione, nonostante sia anch'esso un paese colpito dalla carestia, il Kenya è stato lodato dalle organizzazioni internazionali. Qualche nostro Ministro, che per mesi ha fatto temere "la calata dei barbari in Italia", farebbe bene a fare una visitina in Kenya, forse la prossima volta non direbbe più idiozie come quelle dette nei mesi passati.
L'Alto Commissariato, le ONG, le Nazioni Unite e i leader religiosi (ieri il Papa) stanno lanciando appelli al mondo intero perchè la situazione è insostenibile. Si stimano che servono 691 milioni di dollari aggiuntivi per arrivare a fine anno e per ora l'appello ai governi (Germania e Gran Bretagna tra i primi a rispondere) ha permesso di raccogliere "solo" il 30% dei fondi necessari.
In Italia AGIRE, coalizione di ONG per le emergenze, ha da giorni lanciato un'appello alle donazioni, sebbene come afferma Domeico Quirico sulla Stampa "la carità internazionale si è fatta stanca". Ovviamente vi sono anche altre istituzioni che raccolgono fondi, come FAO, UNICEF, PAM, Save the Children, Action Aid, Amref, Cesvi, Cisp, Coopi, Cosv, Intersos, Vis e altre.

Certo, secondo gli studiosi le origini della carestia sono da ricercarsi nella scarsità delle piogge e di conseguenza nei cambiamenti climatici globali. La colpa insomma è tutta della natura, ingenerosa verso l'Uomo e verso Dio. Ma, è innegabile che ciò che trasforma uomini, donne e bambini somali in disperati alla ricerca di cibo sono la pessima politica e la guerra che attanaglia il paese oramai da 20 anni, senza interruzioni. Politiche scellerate, interventi sbagliati e le peggiori strategie geopolitiche hanno contribuito, quando non determinato, la strage che oggi è in corso. A tutto questo si aggiunge la mancanza di informazione, la carestia attuale è annunciata oramai da due anni, gli appelli delle ONG si susseguono da mesi. Ora però serve intervenire, subito.



Auguri Mister Mandela!

Oggi, Nelson Mandela compie 93 anni. Un traguardo straordinario per qualsiasi uomo, una leggenda per un uomo che con le sue azioni e con il suo sacrificio ha cambiato il corso della storia mondiale.
Auguri Nelson, il mondo intero è consapevole che la tua storia continua ad essere un valore assoluto per l'umanità, un monito per il nostro futuro ed un esempio di coerenza e forza per le giovani generazioni.


Lo scorso anno Sancara celebrò il compleanno di Mandela con questo post che conteneva uno storico discorso di Thomas Sankara sul Sudafrica.

Nelson Mandela fu liberato, l'11 febbraio 1990, dopo 27 anni di carcere. La sua condanna fu esclusivamente determinata dal colore della sua pelle. Nel 1993 ricevette il Premio Nobel per la Pace e nel 1994 divenne il primo Presidente nero del Sudafrica, carica che mantenne per un mandato fino al 1999.

venerdì 15 luglio 2011

Edifici tradizionali Ashanti

Gli edifici tradizionali Ashanti, per l'esattezza 13 abitazioni, situati nella provincia Kumasi del nord-est del Ghana rappresentano gli unici elementi conservati di uno dei più grandi e prosperi imperi dell'epoca precoloniale africana: l'Impero Ashanti o Asante (1570-1896). L'Impero raggiunge il suo massimo grado di espansione e di importanza nel XVIII sec., grazie ai continui scambi, soprattutto di oro e schiavi, con gli europei che avevano costituito una serie di basi lungo la Costa d'Oro. Ancora oggi la monarchia Ashanti, e alcune sue strutture, sopravvivono costituzionalmente all'interno dello stato del Ghana.
Nel 1980 gli edifici sono diventati Patrimonio dell'Umanità UNESCO, perchè data la loro fragilità (sono costruiti di paglia e fango), necessitano di grande tutela e salvaguardia. I tetti sono costruiti con foglie di due specie di alberi (Hippocrates africana e rowlandii), conosciuti per la loro resistenza alle termiti.

L'Impero Ashanti è stato forse uno dei più grandi imperi africani. Sebbene la sua l'istituzione sia datata 1570, la sua storia ha origini intorno al 1200 quando il gruppo etnico Ashanti (sottogruppo del più ampio popolo Akan) giunse nella zona nord-occidentale del fiume Niger un tempo occupata dall'Impero del Ghana (300-1076).
L'organizzazione sociale dell'Impero era molto complessa e divenne un regno potente e militarmente ben strutturato e disciplinato. Nella sua massima espansione comprendeva anche i territori oggi del Togo e della Costa d'Avorio. Gli artigiani ashanti lavarorvano l'oro, il bronzo e altri metalli. La creazione di gioielli in oro, indossati con grande fierezza e tuttora apparteneti alle tradizioni ashanti, fu una delle espressioni della ricchezza dell'impero.
Nel 1695 la capitale dell'Impero di venne Kumasi (ancora oggi sede del regno). Purtroppo tutti gli edifici reali, compreso il palazzo di corte, furono distrutto dagli inglesi nel 1874 e nel 1896, mentre gioielli e altri si trovano nei musei britannici.
L'Impero Ashanti è stato uno dei pochi regni africani (un'altro fu quello degli Zulu) che si opposero in modo deciso alla colonizzazione europea. Infatti i britannici, dal 1806 al 1896, dovettero combattere ben quattro guerre per sconfiggere militarmente gli Ashanti. L'ultima guerra, quella decisiva, fu condotta dall'ufficiale Robert Baden-Powell (che nel 1907 diede vita al movimento scautistico mondiale), il quale dopo aver devastato Kumasi e incendiato il mausoleo reale (barem) costrinse alla resa re Kwaki Dua III Asamu (Prewpwh I). Il leader ashanti - assieme ad altri funzionari - fu mandato in esilio alle Seychelles (dove vi rimase fino al 1926, quando fu autorizzato a rientrare in Ghana quale privato cittadino).
Finiva così - nella distruzione generale - uno dei più prosperosi e complessi regni africani. L'uomo bianco, con le sue armi da fuoco, aveva deciso che quelle terre erano di sua proprietà, ignorando che da millenni altri uomini, scuri di pelle e forse meno evoluti(?), vi abitavano.

Per ironia, uno delle più antiche associazioni scautistiche mondiali, è quella nata nel Ghana nel 1911.

Ecco la pagina web dell'attuale Regno Ashanti

Vai alla pagina di Sancara sui Patrimoni dell'Umanità in Africa

giovedì 14 luglio 2011

Un anno di Sancara

Con un post intitolato Verso l'Africa (e un'annotazione sulle motivazioni della dedica a Thomas Sankara), un anno fa, il 14 luglio 2010, nasceva questo blog. Sancara per me è stato, ed è ancora, una logica - e forse tardiva - conseguenza di un amore e di una passione vera verso un intero continente, l'Africa. Scrivere poi rappresenta un'altra passione, mai sufficientemente coltivata. Al tempo stesso scrivere è un modo per condividere fatti, pensieri e idee frutto di studi e letture sui temi africani e di frequentazioni (molto meno di quello che avrei voluto) della "terra rossa", che rischiavano di rimanere nel solito, e oramai pieno, cassetto.
Da questi presupposti è nato Sancara. Ho dovuto impare, e anche questo è stato molto divertente, come funziona un blog, le sue regole e capire come muoversi nella vastità della rete.
Per uno che scrive per il piacere di farlo e perchè crede che sia bene raccontare le orrende ingiustizie che avvengono nel continente nero, ma anche le emozionanti bellezze e le straordinarie persone che vi vivono, il vero problema è solo quello di evitare che il proprio blog sia uno strumento per pochi intimi.

A distanza di un anno posso dire che ne è valsa la pena. Non so dire sei i lettori o le pagine lette siano tante o poche, quel che conta è che ho molte persone da ringraziare per l'attenzione che hanno sempre prestato a Sancara ed ai suoi temi. Grazie, veramente grazie.
Così come sono stati importanti (e sono sicuro lo saranno) i commenti ai post e gli scambi di idee e di pensieri con molti amici con cui ho condividono interessi e curiosità. Citarli tutti sarebbe impossibile. Ma a tutti va il mio sentito ringraziamento.

Mi piace invece l'idea di ringraziare singolarmente siti, blog, radio e altro che in quest'anno hanno condiviso o pubblicato post di Sancara, contribuendo al diffondere di idee e pensieri. Ovviamente dietro di ognuno vi sono persone serie e competenti che con passione contribuscono al diffondersi delle informazioni e delle notizie.
Vorrei allora ringraziare, senza nessun ordine, African Voices per il lavoro straordinario e per i continui scambi di idee, Afriradio e in particolare la trasmissione Afritour per avermi invitato e per l'amicizia, Ecoinchiesta per l'accoglienza generosa, Immagine dell'Africa per gli stimoli continui a proseguire, Stop The Censure per avermi nominato in una lista di blog interessanti, l'Onlus Oltre la polvere per la continua attenzione nei confronti di Sancara, Rischio Calcolato per i frequenti rimandi verso articoli del mio blog, Italian Blog for Darfur per la loro splendida iniziativa a cui ho subito aderito, i blog PM-Files e Eliotropo per dar risalto ai miei post, il Blog Climatrix per aver pubblicato alcuni dei miei post, l'associazione Woman in Progress per avermi pubblicato, TRS Radio di Savignano per aver sopportato la mia voce, il Blog di Tisbe per aveermi citato nella sua faziosa rassegna sull'8 marzo, La Commenda - Solart Onlus per la continua attenzione e infine il blog Quellochecipiace per i generosi complimenti.

Sicuramente avrò dimenticato qualcuno, con cui mi scuso in anticipo.

Ieri a pranzo un'amica che non vedevo da tempo e che evidentemente legge il mio blog, mi ha ringraziato perchè con i miei post le apro una finestra sull'Africa, su storie e fatti che i giornali (lei è un'attenta e critica lettrice) per la maggior parte delle volte non citano nemmeno in un trafiletto in ultima pagina. Ho sorriso.

mercoledì 13 luglio 2011

Bark Cloth, una tecnica tessile dall'Uganda

Bark Cloth (o Barkcloth), e' una tecnica tessile che un tempo era comune in Africa oltre che in alcune aree dell'Asia e dell'Oceania e che oggi è ancora praticata in particolare tra i Baganda dell'Uganda.
Il tessuto che si ricavava, di rara bellezza e finezza, colorato e decorato, serviva alla famiglia reale del regno di Buganda e veniva usato tradizionalmente nelle importanti cerimonie quali le incoronazioni, i matrimoni e le cerimonie funebri.
Il tessuto è ricavato dalle fibre di alcune piante della famiglia delle Moraceae, tra cui la Broussonetia papyrifera, la Artocarpus altilis (albero del pane) e il Ficus.
In Uganda viene in modo particolare usata la corteccia dell'albero Ficus natalensis, che in loco viene chiamato Mutuba.
Il tessuto si ottiene battendo delicatamente la corteccia (bark, in inglese) fino a farla diventare sottile ed elastica. Da una corteccia di 75x150 centimetri, si ottiene un tessuto grande fino a 400x180. L'albero decorticato, viene ricoperto con grandi foglie di banano in modo da consentire la ricrescita della corteggia. Un albero nel corso della sua esistenza (40 anni) può arrivare a produrre fino a 400 metri quadrati di stoffa.
Al fine di salvaguardare questa tecnica (secondo alcuni studi risalente ad epoca preistorica), praticata dai Baganda almeno dal XIII secolo, che rischiava di andar perduta, a seguito dell'introduzione del cotone a partire dal XIX secolo, l'UNESCO nel novembre 2005 la iscrive tra i Patrimoni immateriali dell'Umanità.




Tra le azioni per la salvaguardia che l'UNESCO ha messo in campo in questi anni, vi è la formazione, soprattutto dei giovani artigiani (la tecnica storicamente veniva tramandata di generazione in generazione), la promozione della cultura del barkcloth e la sua diffusione anche fuori dall'Uganda e una serie di interventi per favorire il mercato e rendere quindi remunerativo il lavoro artigianale.


Ecco un blog per parla dell'arte del barkcloth ugandese.

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martedì 12 luglio 2011

Libri: Ebano

Ryszard Kapuscinski, pubblica Ebano nel 1998 (verrà poi edito in Italia, dalla Feltrinelli, nella collana "I Narratori" nel 2000). In realtà si tratta di un lungo viaggio (o meglio frammenti di viaggio, come egli stesso li descrive) - composto da appunti - che, a partire dal 1958, Kapuscinski annota in Africa nelle sue vesti di reporter per conto di un'agenzia di stampa polacca. Inutile dire che egli si è trovato, osservatore attento e profondo, nei luoghi e nelle epoche che hanno fatto la storia contemporanea africana. Dalle sue narrazioni abbiamo conosciuto molti retroscena della storia ufficiale africana.

Il libro si apre con questa annotazione "l'Africa è un continente troppo grande per poterlo descrivere. E' un oceano, un pianeta a sè stante, un cosmo vario e ricchissimo. E' solo per semplificare e per pura comodità che lo chiamiamo Africa. A parte la sua denominazione geografica, in realtà l'Africa non esiste". Partendo da questo condivisibile presupposto, Kapuscinski non pretende mai di raccontare pezzi di Africa o di elaborare tesi e pensieri, egli si limita a descrivere, con grande maestria, persone, luoghi ed episodi, che incontra o assiste nel suo percorso.
Un percorso accompagnato da una estrema capacità di osservare, cogliere particolari e fotografare scene di vita quotidiana, che hanno fatto di Kapuscinski una dei più grandi e raffinati conoscitori delle cose africane.

E' morto nel 2007, dopo aver dedicato la sua intera esistenza ad inviare reportages per conto dell'agenzia di stampa polacca PAP.

Ad un libro di Kapuscinski, Ancora un giorno, sull'indipendenza dell'Angola, ho dedicato la prima recensione di un libro su questo blog.


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lunedì 11 luglio 2011

Stati in via di fallimento, aggiornamento 2011

Sancara si era già accupato, con un post del settembre scorso (Stati in via di fallimento: il trionfo dell'Africa, a cui vi rimando per le questioni generali) della speciale classifica che l'organizzazione per la prevenzione dei conflitti che generano guerre, The Fund of Peace, pubblica annualmente e che attraverso 12 indicatori (e dalla comparazione tra essi) tende a far emergere gli stati vicini al "collasso" delle sue strutture amministrative e democratiche.

Rispetto allo scorso anno, sono diminuiti, da 37 a 35 i paesi nella fascia di allerta (punteggio complessivo maggiore di 90), pur rimanendo inalterati il numero degli stati africani in questa lista dei "peggiori" (22 lo scorso anno, come quest'anno).
A capeggiare questa serissima classifica è la Somalia (113,4 punti, date le condizioni credo sia del tutto logico), seguita da Ciad (110,3), Sudan, RD del Congo, Haiti, Zimbabwe, Afghanistan, Repubblica Centrafricana, Iraq e Costa d'Avorio.
Rispetto allo scorso anno, ma appare prevedibile, bisogna segnalare l'entrata nei primi dieci posti di Haiti e della Costa d'Avorio.

Sono poi 89 (erano 92, nel 2010) i paesi nella fascia dell'attenzione, 40 (erano 34) quelli della fascia della moderazione e 12 (erano 13) nella fascia della sostenibilità.
La classifica in termini positivi è capeggiata (ovvero al 177° posto, quante sono le nazioni analizzate) dalla Finlandia (lo scorso anno dalla Norvegia, quest'anno al secondo posto) con un punteggio di 19,4. E' da notare che dal gruppo "sostenibile" esce (l'avevamo già notato lo scorso anno) l'Islanda.

Da segnalare ancora il "miglior" piazzamento africano delle Isole Maurizio (150° posto con 44,2, poco dopo l'Italia che è 147°). Dell'Africa continentale al 117° posto si trova il Sudafrica (con 67,6) che scavalca di poco il Ghana, lo scorso anno in testa all'Africa continenatale.

Da questa analisi emerge che tutti gli stati africani si trovano nella fascia di attenzione per quanto concerne la possibilità di fallimento.

Popoli d'Africa: Acholi

Gli Acholi (chiamati anche Acoli e meno frequentemente Gang o Shuli) sono un gruppo etnico che vive nel nord dell'Uganda, e una piccola comunità nel neonato stato del Sud Sudan. Complessivamente contano circa 1,2 milioni di individui, di cui circa 50 mila in Sud Sudan.
Parlano una lingua nilotica, l'Acholi, simile al Luo (gruppo etnico vicino). L'area dove vivono viene generalmente chiamata "Acholi-land", sebbene ovunque non sia indicata la parte sud sudanese.
Gli storici sostengono che il gruppo sia migrato, verso la fine del XVII secolo, dal Sudan (nell'area oggi chiamata Bahr el Ghazal), entrando in conttato con l'etnia Luo del nord Uganda.
Vivono in piccoli villaggi costituiti da clan patrinileari. Sono cacciatori e allevatori. Coltivano miglio (che è la loro principale fonte di alimentazione) e tabacco per il commercio. Sono prevalentemente cattolici (cristiani e protestanti), con una minoranza mussulmana. La presenza di credenze tradizionali, rimane comunque alta. Buoni musicisti e ottimi danzatori.
Durante il periodo coloniale, gli inglesi favorirono lo sviluppo economico e sociale del sud del paese (in modo particolare a favore dell'etnia Baganda). Gli Acholi, assieme agli altri gruppi etnici del nord, supplirono a molti dei lavori manuali tra cui anche quello dei militari. Infatti nel tempo crearono quella che ancora oggi è una forma di "etnocrazia militare" che nel giugno 1985 sfociò nel golpe del Generale Tito Okello (che aveva partecipato alla defenestrazione di Idi Amin nel 1979 e che è morto in esilio nel 1996), abbattuto pochi mesi dopo, nel gennaio 1986, dall'attuale capo di stato, Yoweri Museveni.
Gli Acholi sono tristemente conosciuti, loro malgrado, nel mondo perchè tra la loro gente è nato uno dei gruppi armati più sanguinari dell'intera Africa, la Lord's Resistence Army (LRA) o Esercito di Resistenza del Signore, (di cui mi ero già occupato in un precedente post) capeggiato dall'acholi Joseph Kony, sanguinario e delirante criminale. L'LRA dal 1987 (nasce a seguito della presa di potere di Museveni) ha assassinato, stuprato e mutilato decine di migliaia di persone. Inoltre ha rapito e costretto a diventare sanguinari guerrieri oltre 30 mila bambini. Ancora oggi gli Acholi costituiscono un gruppo di rifugiati interni in Uganda, poichè sono essi stessi oggetti di attacchi dell'LRA.
L'etnia Acholi da decenni subiscono i suprusi dell'LRA e la repressione del governo centrale.

Vi segnalo questo breve articolo di Ulrich Delius sulla guerra civile che interessa gli Acholi del Nord Uganda.
La pagina di AcholiToday, su quello che e' un vero e proprio genocidio ad opera dell'LRA.
La pagina sugli Acholi, nel sito Gurtong del Sud Sudan.

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