martedì 31 gennaio 2012

Libri: La terrazza proibita

La terrazza proibita. Vita nell'harem è un libro autobiografico scritto da una delle voci  più interessanti del maghreb, la sociologa e scrittrice marocchina Fatema Mernissi pubblicato da Giunti, nella collana Astrea, nel 1996.
Il libro racconta la storia dell'autrice, nata a Fez nel 1940, all'interno di un harem. E' una memoria d'infanzia (l'autrice nasce nel 1940 e cresce nell'harem del padre e dello zio) che oscilla tra un forte legame con la tradizione e la cultura araba da un lato, e la ricerca della modernità dall'altro. Ne esce una biografia delicata, sensibile, a volte giocosa e affascinante, altre cupa e drammatica.
Fatema riesce a sfatare il mito dell'harem, sia nelle sue connotazioni negative, facendolo apparire un luogo del quotidiano e di formazione, sia in quelle - soprattutto maschili- che lo idealizzano come regno del piacere (gli uomini della casa sono tutti monogamici e spesso "tiranneggiati" dalle mogli).
L'autrice resta comunque sempre legata alla sua cultura d'origine che difende nei suoi aspetti più veri.
La storia è centrata sul luogo della terrazza che sovrasta la casa- che dà il titolo al libro - che rappresenta il simbolo dell'evasione, del contatto con il mondo esterno, ma anche del proibito e della trasgressione.
Parallelamente alla vita - forse un pò ovattata all'interno delle mura di casa -  si svolgono le vicende politiche e sociali che portarono all'indipendenza del Marcocco e di cui gli uomini di casa, sono a loro modo, protagonisti.
La Mernissi guida il lettore verso una intima conoscenza delle tradizioni e della cultura araba (bello il racconto sull'hammam e sulla ricerca della bellezza al femminile), svelandone i segreti attraverso gli occhi di una bimba che deve crescere e comprendere la realtà in cui vive, spesso nelle difficoltà. Sarà infatti la madre a suggerirgli come comportarsi,"devi imparare a gridare e protestare, proprio come hai imparato a camminare e parlare. Piangere davanti agli insulti è come chiederne ancora", gli dice in un difficile momento.
Un bel libro, per capire un mondo a voltem, per noi, molto lontano.


Fatema Mernissi, è nata da una famiglia borghese a Fez nel 1940. Studia in Francia e negli Stati Uniti. Oggi insegna Sociologia all'Università Mohammed V di Rabat. E' ritenuta una grande studiosa del Corano, su cui svolge attività di ricerca in ambito internazionale, in particolare sul ruolo della donna (viene ritenuta una "femminista islamica"). Il suo impegno è massimo nella ricerca di relazioni tra i popoli del Mediterraneo, convinta sostenitrice della necessità di integrare culture e conoscenze. Ha pubblicato oltre a qualche romanzo, soprattutto saggi sull'islam e il ruolo delle donne nella cultura mussulmana.





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mercoledì 25 gennaio 2012

25 gennaio 2011 inizia la rivoluzione in Egitto

Per ora il 25 gennaio 2011 non è ancora una data storica per l'Africa. Non sempre un evento assume un'importanza riconosciuta e chiara a poca distanza dal suo svolgersi. E' una data però importante per milioni di egiziani (e non solo) che infatti oggi sono scesi, in molti, in Piazza Tahrir, a festeggiare l'inizio della Rivoluzione che portò alla caduta di Hosni Mubarak avvenuta poi l'11 febbraio del 2011. Certo in molti anche a piangere i martiri di quella rivoluzione, che le stime non ufficiali, quantificano essere almeno 800.
E' passato un anno, l'Egitto è ancora lontano da aver trovato stabilità, democrazia e pace. Ma molti passi sono stati fatti, certo non tutti nella direzione che molti, almeno in Occidente, si aspettavano.
E' caduto un governo - quello di Mubarak - che durava da 30 anni. Il potere è rimasto però saldamente in mano ai militari, che dal 1952, l'anno della rivolta dei liberi ufficiali di Gamal Nasser, l'hanno sempre detenuto senza soluzione di continuità. Si è anche votato. Gli egiziani hanno affidato il futuro del Paese nelle mani dei Fratelli Mussulmani (con il 46% dei seggi), storica formazione nata nel 1928, osteggiata da Nasser, coinvolti nell'assassinio di Sadat nel 1981 e oggi su posizioni più moderate. Naturalmente la situazione non è ancora fluida. I Fratelli Mussulmani (ripeto, eletti dal popolo egiziano) non hanno la maggioranza per governare, dovranno allearsi o con i conservatori salafiti di Al Nour (26 % dei seggi alle elezioni) o con lo storico partito nazionalista Al-Wafd (che ha ottenuto il 7% dei seggi) o con i laici del Blocco Egiziano (6% alle elezioni). Certo a condizione che i militari, che in quasi 60 anni ininterrotto di potere, detengono l'intero potere, sia quello politico sia quello economico, siano disposti a lasciar fare.
Intanto in preparazione di questa giornata di festa (o di lotta, secondo alcuni) i militari, in modo propangandistico, hanno posto fine allo stato d'emergenza che durava dal 1981, le opposizioni - gli attivisti della rivoluzione - hanno chiamato alla lotta per continuare quella che da più parti è definita come una "rivoluzione incompleta".
Un anno non è sufficiente per modificare le sorti di un grande Paese come l'Egitto dopo decenni di controllo e di "informazione di stato". Certo chi si aspettava un grande Paese dell'Africa del Nord, laico e "occidentale", con continuare ad avere lo stesso atteggiamento, è rimasto, per ora, fortemente deluso.

 

Per approfondimenti e per seguire l'evolversi della situazione (anche per avere una voce diversa da quella che spesso si leggono sui nostri media) vi segnalo il blog Il Mio Egitto - Diario della Rivoluzione Egiziana.

martedì 24 gennaio 2012

Parco Nazionale Gouraya

Lake Mezaia
Il Parco Nazionale di Gouraya, istituito nel 1984, è situato nella provincia di Bejaia, nella regione della Cabilia ,in Algeria. La sua superficie è di oltre 20 km quadrati, costituita dalla catena montuosa omonima, da vallate, scogliere e spiaggie che affacciano sul Mediterraneo. Nel suo territorio vi è una zona montuosa che raggiunge quasi i 700 metri, un lago (Lago Mezaia) ed il Golfo di Bejaia. Dal 2004 il parco è inserito tra le Riserve della Biosfera dell'UNESCO.
Forte Gouraya
Nella riserva vi sono specie vegetali protette come querce, pini d'Aleppo e ginepro rosso, oltre naturalmente ai tipici alberi della macchia mediterranea (olivi, agrumi), alcuni mammiferi tra cui il Macaco Berbero, lo Jackal, il Gatto selvatico e il Riccio algerino, mentre la zona marittima ospita capodogli, focene e delfini.
Il parco ospita anche i resti di un forte spagnolo (Fort Gouraya), costruito nel XVI secolo sulla sommità del monte omonimo. Il forte ospita anche i resti sepolcrali del santo patrono di Bejaia, Yemma Gouraya.
All'interno della riserva risiedono quasi 2000 persone di origine berbera, tutti dediti all'agricoltura (oltre che alla produzione del miele), distribuiti in 13 villaggi.
Stando alla classificazione delle Riserve della Biosfera, l'area centrale (riserva integrale oggetto di ricerca, denominata core) è costituita da 680 ettari, vi sono poi 163 ettari di area (denominata buffer) dove è ammesso il turismo (le ultime cifre parlano di 1,2 milioni di turisti all'anno, soprattutto durante il periodo estivo per le cristalline acquee delle sue spiagge) e infine 1150 ettari di aree di transizioni, abitate e dove è consentito l'insediamento di attività economiche.

Ecco il sito ufficiale del Parco di Gouraya

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lunedì 23 gennaio 2012

E' iniziata la 28° Coppa d'Africa

Il logo della Coppa d'Africa 2012
Questa 28° edizione della Coppa delle Nazioni Africane , che è iniziata  ieri 21 gennaio e si concluderà, con la finale di Libreville, nel nuovo Stade d'Angondjie, il 12 febbraio, si preannuncia come un'edizione priva di quasi tutte le maggiori nazionali calcistiche che hanno fatto la storia di questa Coppa nata nel 1957.
Infatti a questa edizione, che si giocherà in Gabon e Guinea Equatoriale, mancheranno 3 delle 4 semifinaliste della scorsa edizione l'Egitto che vinse nel 2010 (e che detiene il record di vittorie con 7, di cui le ultime 3 edizioni consecutive), la Nigeria, terza nel 2010 (e detentrice di due titoli) e l'Algeria (quarta nel 2010 e vittoriosa nel 1990). Inoltre non si sono qualificate il Camerun vincitore 4 volte del titolo, la Repubblica Democratica del Congo (vincitore due volte) e il Sudafrica (vincitrice nel 1996). Potrebbe sembrare che la situazione sia come se agli Europei di calcio mancassero Spagna, Germania, Italia, Inghilterra e Francia. In realtà il calcio africano, contrariamente a quello nostrano, è in grande movimento (soprattutto organizzativo) e non deve sorprendere che la geografia delle "nazioni che contano" sia in continua evoluzione. Durante le qualificazioni le motivazioni giocano un ruolo determinante a favore delle piccole nazioni e decisamente condizionano negativamente i paesi che si avvalgono di campioni che giocano nei campionati di mezzo mondo.
I tifosi della nazionale d'Angola
A seguito di questa nuova geografia, la favorita d'obbligo è la Costa d'Avorio, guidata dal giocatore del Chelsea, Didier Drogba. L'assenza delle "grandi d'Africa" ha ridotto il numero dei giocatori che giocano fuori dal continente tra cui il capocannoniere assoluto della Coppa (e attualmente il giocatore più pagato al mondo) il camerunense Samuel Eto'o. Nonostante tutto solo il Sudan è composto interamente da giocatori che militano in campionati del paese (il Botswana, ha quattro giocatori che militano nel campionato del Sudafrica).
Stade d'Angondjiè a Libreville
Di contro la Costa d'Avorio non ha nessun giocatore che gioca nel proprio paese, mentre il Mali, tolto i due portieri di riserva, ha solo giocatori che militano in campionato stranieri.
Sono 8 i giocatori che oggi giocano nel campionato italiano e che parteciperanno alla Coppa d'Africa. Tre nell'Udinese (il marocchino Benatia, e i ghaniani Aguemang-Badu e Asamoah), due nel Genoa (il ghaniano Alhassan e il guineano Constant), uno nella Fiorentina (il marocchino Kharja), uno nell'Inter (il ghaniano Muntari) e uno nell'Albinoleffe (il guineano Cissè).
La finale si terrà nel nuovo Stadio d'Angondjè, alla periferia della capitale del Gabon, Libreville. Si tratta di uno stadio inaugurato il 10 novembre 2011 con l'amichevole Gabon-Brasile (vinta dal Brasile 2 a 0), costruito in 19 mesi da una ditta cinese, frutto della coperazione sino-gabonese, capace di ospitare 40.000 persone (anche lo stadio di Franceville è stato costruito apposta per questa Coppa). I due stadi nella Guinea Equatoriale (a Bata e a Malabo) furono invece costruiti nel 2007 per la Coppa d'Africa Femminile del 2008.
La Coppa d'Africa si gioca ogni due anni. Sarà giocata però il prossimo anno (2013) per evitare d'ora in poi di farla coincidere con i Mondiali. Nel 2013 si terrà in Sudafrica (doveva essere l'anno della Libia, ma la recente crisi  ha fatto invertire la sede con quella del 2017. Nel 2015 si giocherà in Marocco).

venerdì 20 gennaio 2012

Vivere negli slums

Slum di Lagos
Sono oggi ben oltre un miliardo le persone nel mondo che vivono in intollerabili condizioni di vita, in quei luoghi alla periferia delle grandi metropoli. Slum, baraccopoli, basti, kampung, bidonville, favalas, gecekondu o township, poco importa il nome, rappresentano l'inferno per intere generazioni di individui. L'ultimo rapporto (che poi è anche il primo) sulla situazione degli slums (The Challenge of Slums) del mondo è datato 2003 ed è stato redatto dall'agenzia dell'ONU, UN-Habitat, che si occupa di promuovere lo sviluppo sostenibile urbano.
Nel 2001 erano 924 milioni (il 31,6% della popolazione urbana mondiale) gli abitanti degli slums. Naturalmente nei paesi in via di sviluppo rappresentavano il 43% della popolazione urbana, nei paesi sviluppati il 6%. Percentualmente l'Africa sub-sahariana, con il 71,9% della popolazione urbana che viveva (e vive tutt'oggi) in slums, rappresentava l'area del pianeta a maggiore concentrazione di livelli di vita infami (numericamente vinceva questa sfida della povertà, l'Asia). Il rapporto infine affermava che il numero degli abitanti degli slums era destinato a salire entro il 2030 a quasi due miliardi di individui.
Stando al rapporto vivevano negli slum 41 milioni di cittadini della Nigeria, 11 milioni della Tanzania, 11 milioni dell'Egitto, 10 milioni del Sudan, 10 milioni dell'Etiopia, 8 milioni del Sudafrica, 7 milioni del Kenya, 5 milioni del Marocco, 5 milioni del Camerun e 5 milioni del Ghana. Numeri impressionanti.

Slum di Accra
Anche allo scopo di  monitorare uno degli Obiettivi di Sviluppo del Millennio, per l'esattezza il settimo, si è voluto nel 2002 creare una definizione dell'abitazione di uno slum. Ovvero: "un gruppo di individui che vivono sotto lo stesso tetto e mancano di uno o più di questi elementi: a) accesso all'acqua in quantità sufficiente all'uso familiare e a prezzo sostenibile b) accesso ai servizi igienici attarverso bagno privato o pubblico condiviso da un numero ragionevole di persone c) spazio vitale sufficiente (meno di tre persone in 4 metri quadri) d) abitazioni permanenti edificate in luoghi non pericolosi e) esistenza di documenti attestanti la garanzia di possesso." In definitiva nella difinizione si tralasciano le valutazioni relative agli aspetti socio-economici, concentrandosi esclusivamente su questioni abitative.


La discarica di Dandora a Nairobi
E' chiaro che l'origine della formazione degli slums è legata alla rapida migrazione dagli ambienti rurali verso le città. Nel passato la grande richiesta di lavoro non specializzato ha imposto la migrazione delle popolazioni dalle aree rurali alle città e gli slum hanno funzionato da mitigatori delle migrazioni. I "nuovi cittadini" trovavano alloggi a basso costo, e in modo informale, negli slum e solo successivamente alcuni erano in grado di compiere il salto verso la società urbana. In fin dei conti la città allora era una offerta di occasioni sociali ed economiche. Oggi la situazione è radicalmente mutata. Il nuovo capitalismo (secondo alcuni i cicli dello stesso), la globalizzazione e infine la crisi hanno da un lato imposto la fuga dalle aree rurali e dall'altro costretto una moltitudine umana ad ammassarsi nelle baraccopoli nella speranza semplicemente di sopravvivere. Oggi negli slums la stragrande maggioranza degli abitanti sopravvive grazie ad "attività informali", funzionali al sistema economico, ma assolutamente prive di qualsiasi rispetto per l'uomo. Infatti una delle attività può complesse - ed economicamente dispendiose - per una grande metropoli è il trattamento dei rifiuti urbani. I miserabili degli slums - in tutte le parti del mondo - assolvono a questo compito in modo rigoroso e senza nessuna tutela sanitaria. Una manna per i cittadini.
Slum di Città del Capo
E' chiaro che la vita negli slums non vale nulla. Gli abitanti oltre ad essere privi di qualsiasi diritto ed esclusi dalla vita sociale, sono soggetti ad epidemie di tutte le malattie legate all'igiene e alla promiscuità (dalla dissenteria al colera, dall'epatite all''AIDS), in balia delle condizioni atmosferiche e spesso nelle mani di organizzazioni criminali che li sfruttano in ogni modo. Tanto per sfatare un mito, il rapporto di UNHabitat sottolinea come i  miserabili delle bidonville sono spesso più vittime della criminialità che soggetti attivi del crimine.


Se le previsioni delle Nazioni Unite sono corrette, nel 2030 saranno oltre 2 miliardi gli abitanti del mondo che vivranno negli slums (un quarto della popolazione mondiale). Intervenire oggi è assolutamente necessario. Se è vero che tra gli Obiettivi di Sviluppo del Millennio vi è anche quello di "favorire l'accesso all'acqua potabile almeno a 100 milioni di abitanti degli slum" è altrettanto vero che - seppure fosse raggiunto - sarebbe una goccia in un mare. Naturalmente le organizzazioni internazionali non sono esenti da responsabilità sia nella parte che ha prodotto un progressivo abbandono delle aree rurale (vedi politiche economiche dela Fondo Monetario e della Banca Mondiale) sia poi nella gestione del fenomeno bidonville.
Slum di Korogocho in Kenya
(Foto di una volontaria di AliceForChildren)
Per anni si è tentato di risolvere la situazione prima abbattendo le case fatiscenti e le baracche, poi nascondendo quando più possibile e solo oggi si ritiene - oramai in modo pressocchè unanime - che solo migliorando le condizioni di vita generali (e di conseguenza rimuovendo parte delle cause che stanno a monte della povertà) all'interno delle baraccopoli è possibile un futuro ad una parte consistente dell'umanità. Non mancano naturalmente esperienze in varie parti del mondo che non solo operano a contatto con queste difficili realtà, ma che sono state in grado di produrre soluzioni innovative, in accordo con le popolazioni, capaci di trasformare, consolidandoli, gli insediamenti informali.

Tra le tante realtà che operano negli slums linko il sito di Liveinslums

Vi segnalo anche questa recensione di Jan Breman sul  libro si Mike Davis "Il pianeta degli slums", pubblicato in Italia nel 2006 da Feltrinelli.

mercoledì 18 gennaio 2012

Gule Wamkulu

Il Gule Wamkulu è una danza rituale che accompagna generalmente il passaggio verso l'età adulta e che è praticata dall'etnia Chewa, in Malawi, Zambia e Mozambico. Il rito viene poi usato in molte delle occasioni importanti come la celebrazione del raccolto, un matrimonio, un funerale o l'incoronazione del nuovo capo. Dal 2005 la danza (e in generale il culto segreto che l'accompagna) è diventato Patrimonio Immateriale dell'UNESCO.
Il rito (gule wamkulu significa semplicemente grande danza) può essere datato al XVII secolo, ovvero ai tempi dell'Impero Chewa e viene "custodito" e praticato dai membri di una società segreta chiamata Nyau. Infatti il rito, osteggiato dall'arrivo dei cristiani e dei coloni britannici dopo, ha dovuto sopravvivere in modo per così dire "clandestino" per alcuni secoli.
Molti dei membri della società di iniziati Nyau appartengono anche alla chiesa cristiana (nel rito sono stati anche inseriti elementi provenienti dalla religione cristiana). Oggi il rito ha perso gran parte delle sue radici, divenendo più una sorta di spettacolo, spesso ad uso del turismo.
La danza è ballata da uomini mascherati (le maschere sono tramandate da generazioni) vestiti di pelli di animali e vuole simboleggiare il contatto tra il mondo ancestrale spirituale e il presente, attraverso l'intero spettro delle emozioni e delle azioni dell'esistenza umana. Si tratta secondo alcuni da un lato di un rito di passaggio e dall'altro di un tentativo di mantenere la propria identità rispetto all'esterno (ovvero ai non Chewa).
Per chi desidera approfondire, vi posto il link di un interessante articolo del 2007, scritto da Anusa Daimon del Dipartimento di Storia dell'Univesrità dello Zimbabwe, sul ruolo del Gule Wamkulu nella costruzione dell'identità Chewa.

Il video di seguito è tratto invece dai documenti dell'UNESCO.


L'impegno dell'UNESCO per salvaguardare il Gule Wamkulu è un progetto multinazionale atto a non disperdere un patrimonio secolare, favorendo l'apprendimento delle tecniche alle nuove generazioni di iniziati e diffondendone la conoscenza. Vi è poi il tentativo di favorire da un lato la divulgazione con l'organizzazioni di festival  e di incontri tra le comunità e dall'altro di salvagurdare il patrimonio degli oggetti (maschere, suoni, materiali e tutto quanto ruota intorno ai preparativi e alla danza) e delle documentazioni afferenti al Gule, tutelandone anche gli aspetti della protezione legale.

Ecco un sito (www.gulewamkulu.net) con molte documentazioni su questa danza.


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lunedì 16 gennaio 2012

Parco Nazionale del Serengeti

Il Parco Nazionale del Serengeti è una delle più importanti aree protette dell'Africa Orientale. Ha un'estensione di  14.763 km quadrati (circa 1,5 milioni di ettari), e si trova in un'area della Tanzania posta tra il lago Vittoria, il confine con il Kenya (vi è continuità con il parco keniota del Masai Mara) e il Parco Nazionale di Ngorongoro.
L'area - originariamente di 2286 km quadrati, fu dal 1929 riserva di caccia, nel 1940 entrò a far parte delle aree protette e nel 1951 fu istituito il parco (i cui confini furono estesi nel 1959). Originariamente nel parco era compreso anche il cratere di Ngorongoro, che nel 1956 divenne un parco separato. Nel 1981 il sito è entrato all'interno dei Patrimoni dell'Umanità dell'UNESCO per la sua straordinaria biodiversità.
In effetti il Serengeti (che in lingua Masai significa "pianura sconfinata") ha una ricchezza faunistica unica forse in tutta l'Africa e al suo interno avvengono stagionalmente le più grandi (si superano il milione di capi) migrazioni di ungulati (zebre, gnu, gazzelle e impala) tra le pianure e il Masai Mara.
Il suo ambiente, composto essenzialmente da praterie sconfinate e savana (più verso nord), lo rende unico per accogliere animali di ogni genere: dai leoni (secondo alcuni almeno 2000) agli elefanti, dai leopardi ai bufali, fino ai rinoceronti e alle giraffe. Insomma una straordinaria varietà di animali (una stima parla di un milione di mammiferi residenti) in un ambiente facilmente visitabile. Un paradiso del safari fotografico e del turismo ambientale. Certo oggi il Serengeti è uno dei parchi più frequentati dal turismo per la sua vastità, per la morfologia pianeggiante e per varietà e quantità di animali. E' anche vero che la sua vastità (sono oltre 800 i chilometri di piste transitabili) permette di viaggiare molte volte in perfetta solitudine anche nei mesi più gettonati. Ecco comunque per chi lo desidera una guida mese per mese di cosa è possibile vedere nel parco.

Nel parco si trova anche uno dei più importanti siti archeologici dell'Africa, quello della gola di Oluvai, dove sono stati rinvenuti resti umani che hanno aiutato e aiuteranno a comprendere l'origine della specie umana.
Inoltre, come avviene in tutti i parchi dell'Africa, la pianura del Serengeti è abitata dai Masai che da generazioni vivono in queste pianure.

Purtroppo, non per tutti il parco (il suo ecosistema) è un bene prezioso e intoccabile. da tempo il governo della Tanzania ha proposto di far passare all'interno una strada, capace di collegare Arusha a Musoma, nell'est del paese. Nella cartina a fianco il tracciato della strada proposta e le possibili alternative.Vi segnalo anche il sito Serengeti Watch che segue anche questa vicenda.


Ecco il sito ufficiale del Parco.

Vi linko anche questo breve racconto di Sancara: In tenda al Serengeti

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venerdì 13 gennaio 2012

Cosa avviene in Africa Centrale? Un rapporto dell'UNODC analizza le strade del crimine

Pochi mesi fa, nell'ottobre 2011, l'UNODC (United Nations Office on Drugs and Crime), l'agenzia dell'ONU che studia le relazioni tra la criminalità e la droga, ha pubblicato un interessante e dettagliato rapporto intitolato "Organized Crime and Instability in Central Africa"
Il rapporto analizza la situazione oggi presente in quell'area dell'Africa - e in particolare nella Repubblica Democratica del Congo - definita come "una ragione ricca di risorse naturali, dal grande potenziale e dalla storia tragica", mettendo in ordine un complesso sistema di interessi economici leciti, e soprattutto illeciti, di strategie criminali, di corruzione e di violenze inaudite, che permettono di affermare, senza paura di essere smentiti, che ci troviamo di fronte alla zona più calda (e spesso dimenticata) del pianeta.
Gli interessi in gioco sono altissimi. Si parla, per ogni anno, di 120 milioni di dollari provenienti dall'oro (dieci volte il valore delle esportazioni lecite e due volte il valore delle esportazioni di caffe, la maggiore risorsa agricola del paese) ovvero dalle 12 alle 40 tonnellate che finiscono principalmente nei mercati degli Emirati Arabi, del Libano, dell'India e del Sud Sudan. Di 30 milioni di dollari provenienti dal legname, circa 50 mila metri cubi (oggi la RD del Congo è il terzo paese al mondo per riduzione della foresta) che finiscono nei mercati africani (per poi essere "legalizzati"). Di 29 milioni di dollari provenienti dallo stagno, tra le 900 e le 3200 tonnelate che sono destinate al Belgio, all'Est Asiatico e all'India. Di 21 milioni di dollari provenienti dai diamanti, tra i 20 e i 30 milioni di carati grezzi che finiscono in Belgio, Cina, India, israele, Sudafrica e Emirati Arabi. Di 5 milioni di dollari provenienti dalla cannabis, circa 200 tonnelate, che finiscono nei paesi confinanti. E di 3 milioni di dollari provenienti dall'avorio, ovvero 3,4 tonnellate all'anno (gli elefanti che in RDC erano 377 mila nel 1979, sono oggi poco più di 20 mila), che finiscono in Cina e nei paesi asiatici.
A gestire questo enorme traffico sono dei gruppi armati (complessivamente si stimano tra le 6500 e i 13000 persone), con la complicità di militari e politici corrotti. Non mancano, come il rapporto sottolinea, i gruppi internazionali criminali che fanno affari - il rapporto stima in oltre 200 milioni di dollari, gli interessi annuali in gioco (di cui metà reinvestiti per sostenere i gruppi armati locali) d'oro.
Questi gruppi, alcuni un tempo sostenuti  da una forte spinta ideologica-politica, sono oggi essenzialmente gruppi criminali che utilizzano spietate strategie di controllo del territorio (stupri di massa, violenze, mutilazioni, deportazioni, rapimento, utilizzo di bambini soldato) al solo fine dell'arricchimento. Queste strategie tendono a destabilizzare la situazione generando quel caos (il numero degli sfollati e delle persone in fuga oramai non si contano più) in cui possono liberamente scorazzare.
Il rapporto sottolinea come, nonostante gran parte dei problemi hanno avuto origine nel periodo coloniale, l'attuale situazione deriva da fatti più recenti. In particolare l'origine può essere ricercata nei fatti conseguenti al genocidio del Ruanda nel 1994, con il massiccio esodo di vittime e di carnefici in fuga e alla conseguente seconda guerra del Congo, iniziata nel 1998 e che ha lasciato fino al 2003 (anno in cui le ostilità sono "formalmente" cessate) sul campo oltre 5 milioni di vittime. Non è un caso che - stando sempre al rapporto - il gruppo armato più numeroso (circa 4000 effettivi) è costituito dalla milizia Hutu Forces Democratique de liberation du Rwanda (FLDR), seguito dal suo "equivalente" Tutsi, il  Congres national pour la defense du peuple (CNDP, con circa 1000-2000 uomini), sebbene molti degli uomini del CNDP siano stati recentemente integrati nell'esercito congolese (contribuendo a rendere ancora più criminale un esercito già molto compromesso). In questi due gruppi, oltre a trovarsi l'origine "ruandese" della complessa situazione, si evidenzia anche come oramai quell'originale rivalità abbia perso qualsiasi senso. Infatti i due gruppi hanno stretto, in più occasioni, allenze per meglio sfruttare i grandi interessi economici che sono sul piatto. In contrapposizione a questi due gruppi originari, si crearono le varie milizie di autodifesa denominate genericamente Mai Mai e che oggi rappresentano dei veri e propri "networks" criminali.
Il rapporto affronta nel dettaglio tutti gli elementi in gioco, analizzando le metodologie di sfruttamento e di commercio delle singole risorse, in questo puzzle criminale complesso, non senza lanciare un monito: "senza un sistema efficiente di regole  il paese non ha speranze. Vi è la necessità di un sistema giuridico capace di punire i colpevoli (anche quelli in uniforme) e un sistema di regole  per il commercio nella regione e in particolare per quello dei minerali".
Gli oltre 18 mila caschi blu dispiegati sul territorio (costo dell'operazione 1,3 miliardi di dollari all'anno) rischiano di essere "invisibili" se non supportati da uno sforzo internazionale atto a ricostruire il sistema giuridico e penale.

Purtroppo guardando quello che è successo negli ultimi mesi a seguito delle elezioni presidenziali nella Repubblica Democratica del Congo, considendo gli interesse "legali" di oltre 15 grandi stati del mondo verso le risorse naturali del paese, le soluzioni proposte dal rapporto appaiono lontane e molto difficili, se non addirittura utopistiche.
Intanto, gli oltre 70 milioni di congolesi, sono tenuti in scacco da 10-20 mila criminali che godono della complicità di molti, nella quasi totale indifferenza di quella parte del mondo che sfrutta, e usa, le immense risorse della Repubblica Democratica del Congo.




mercoledì 11 gennaio 2012

Popoli d'Africa: Baka

I Baka (chiamati anche Bayaka, Bebayaka, Bebayaga o Bibaya) sono un popolo nomade che vive nelle foreste pluviali equatoriali del Camerun,  del Gabon e del Congo. Stando a delle stime (calcolare il loro numero non risulta facile) sono un numero che varia da 30.000 a 40.000 individui. Appartengono a quel vasto gruppo di popoli pigmei, per la loro bassa statura. Hanno grandi similitudini con altri popoli pigmei come gli Aka, i Twa e i Mbuti.
Si accampano nella foresta in capanne unifamiliari a forma di igloo, chiamate mongulu, costruite dalle donne con foglie e rami. Restano nella stessa area fino a quando la foresta è in grado di sfamarli, poi si spostano.
Vivono utilizzando quello che la foresta offre, ovvero cacciando (gli uomini) con frecce avvelenate o trappole, e nutrendosi di miele (sono abili raccoglitori) e di altri prodotti come frutti selvatici e funghi. I Baka sono inoltre grande conoscitori delle piante della foresta che utilizzano per produrre i veleni per le frecce ed i medicamenti. Hanno anche delle complesse tecniche di pesca. Hanno uno spirito molto comunitario, percui tutti i prodotti della caccia o della raccolta, vengono divisi tra tutti i nuclei familiari.
Sono animisti e credono in uno spirito della foresta chiamato Jengi. Hanno delle complesse danze rituali che sono accompagnate da canti polifonici e da strumenti a percussione, mentre continuano a praticare un rito di iniziazione che segna l'ingresso di ogni maschio Baka nell'età adulta.
La musica è un elemento di primaria importanza per i Baka, che la coltivano fin dalla tenera età. Del resto, come gli antropologi hanno sempre sostenuto, l'udito e i suoni sono fondamentali per la sopravvivenza nella foresta dove spesso la vista si ferma a poche decine di metri. I Baka hanno la capacità di "ascoltare" la foresta. Il rapporto con la foresta per i Baka è la vera essenza della loro cultura. La foresta offre tutto quello che è necessario per vivere, per conoscere e per credere.
Purtroppo negli ultimi decenni la loro sopravvivenza è fortemente minacciata dalla deforestazione, che da un lato toglie loro i luoghi della loro vita e dall'altra li costringe ad uscire dalle foreste scegliendo una vita più sedentaria (costruscono capanne non lontano dai villaggi delle popolazioni bantu di cui sono spesso vittime di suprusi) che rompe ogni legame con le loro antiche tradizioni.

Tra i maggiori conoscitori del popolo Baka vi è un antropologo italiano,  Luis Devin , che per anni ha vissuto con loro, carpendone i segreti più remoti. A breve uscirà un suo libro (La foresta ti ha. Storia di un'iniziazione, Castelvecchio Editore). Questo è il suo sito riccamente documentato e con stupende immagini.
Tra i primi invece a scrivere sul popolo Baka fu  Lisa Silcock alla fine degli anni '80.

I Baka sono una etnia che per le loro caratteristiche - qualcuno li ha descritti come un "popolo che vive in un limbo tra passato e presente" - hanno sempre destato curiosità ed interesse. Girando per la rete si possono trovare informazioni, immagini, approfondimenti sulla loro musica e sulla loro capacità di adattamento nella foresta. Non manca naturalmente chi cerca di aiutare la loro sopravvivenza. Tra i tanti vi segnalo l'Associazione Dokita, attiva con un progetto in loco, e naturalmente Survival International, che da tempo segue la delicata situazione dei popoli pigmei dell'Africa centrale.

Ecco anche un'altro sito per approfondire la conoscenza del popolo Baka.
Questo interessante articolo di approfondimento sullo sviluppo umano e la cultura tra i Baka.
Oppure questo video di National Geographic del 1988 sui Baka.

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martedì 10 gennaio 2012

I più giovani e i più vecchi al potere - 2011

Dopo aver pubblicato la lista dei più longevi Capi di Stato o di Governo del mondo al potere al 31 dicembre 2011, la liste delle donne al potere, proviamo a fare il punto sull'eta dei governanti.

Su 349 Capi di Stato o di Governo in carica al 31 dicembre 2011, 23 avevano superato gli 80 anni (erano 20 lo scorso anno) e solo 8 (10 lo scorso anno) avevano meno di 40 anni. Nessuno aveva meno di 30 anni, (lo scorso anno era uno). Nel dettaglio, ecco le due liste :


Lista dei più anziani (come sempre evidenzierò in rosso i leader africani):

1 - Il Governatore Generale di St.Kitts e Nevis, Sir Cuthbert Sebastian, 90 anni
2 - Il Presidente di Israele, Shimon Peres, 88 anni
3 - Il Presidente dello Zimbabwe, Robert Mugabe, 87 anni (nella foto)
4 - Re Abdullah dell'Arabia Saudita, 87 anni 
5 - Il Presidente Etiopia Girma Wolde Giorgis, 87 anni 
6 - Il Presidente dell'Italia, Giorgio Napolitano, 86 anni 
7 - Regina Elisabetta II del Regno Unito, 85 anni 
8 - Il Presidente del Senegal, Abdoulaye Wade, 85 anni
9 - Il Primo Ministro di Tunisia, Beji Caid Essebsi, 85 anni

10 - Il re di Thailandia, Bhumibol, 84 anni (gli stessi anni di Benedetto XVI (Vaticano) e del Capo di Stato della Malaysia)

Per quanto riguarda i più giovani, solo 8 Capi di Stato o di Governo avevano, al 31 dicembre 2011, meno di 40 anni (tre li hanno compiuti nel corso del 2011). Ecco la lista:

1 - Re del Bhutan, Klesar Namgyel Wangchuk,  31 anni

2 - Capitano Reggente di San Marino, Matteo Fiorini, 33 anni
3 - Primo Ministro del Montenegro, Igor Luksic, 35 anni
4 - Primo Ministro della Georgia, Nika Gilauri, 36 anni
5 - Presidente del Madagascar, Andry Rajoelina, 37 anni (nella foto in alto)
6 - Primo Ministro Costa d'Avorio, Guillarme Soro, 39 anni
7 - Primo Ministro Dominica, Roosvelt Skerrit, 39 anni
8 - Primo Ministro Giamaica, Andrew Holness, 39 anni
9 - Presidente Nauru, Sprent Dabwido, 39 anni
10 - Presidente Rep.Democratica del Congo, Joseph Kabila, 40 anni 
10 - Primo Ministro Lettonia, Valdis Dombrovskis, 40 anni
10 - Primo Ministro Finlandia, Jyrki Katainen, 40 anni


Scorrendo la lista dei 54 leader mondiali che al 31 dicembre 2011 non erano ancora arrivati ai 50 anni d'età (sicuramente pochi), è evidente che i giovani provengono dall' Europa (18), dall' Africa (13) e  dall'est europeo (8). Tra i "giovani" alla guida di grandi paesi vale la pena ricordare il Primo Ministro del Regno Unito David Camerun (45 anni), il Presidente della Russia Dmitry Medvedev (46 anni) e il Primo Ministro Turco Recep Erdogan (47 anni).

La politica, quella che conta, continua ad essere fatta da maschi anziani.


lunedì 9 gennaio 2012

Libri: Mentre il mondo stava a guardare

Mentre il mondo stava a guardare, è uno straordinario libro scritto da Silvana Arbia e pubblicato da Mondadori Strade Blu nel novembre 2011.
E' il racconto di un magistrato italiano che dal 1999 si è occupata in prima linea, come procuratore per conto della Corte Penale Internazionale, del genocidio del Ruanda.
Silvana Arbia ci accompagna in un viaggio competente e preciso nell'inferno di quello che accadde nei pochi mesi che seguirono quel 6 aprile 1994, quando si scatenò la follia omicida che portò alla morte, a mezzo di colpi di machete e bastoni, quasi un milione di persone. Un viaggio parallelo a quello personale che la Arbia compie, quello di una donna magistrato che sceglie di andare in Africa (per oltre 100 mesi, come lei scrive) e ne coglie le genuine emozioni che la magnifica terra del Ruanda prima e della Tanzania dopo sono in grado di regalare. Mentre il mondo stava a guardare è un libro che si legge senza respirare, trascinati in un vortice di orrore per i fatti avvenuti, di stupende immagini che l'autrice riesce a trasmettere e di competente accusa verso chi poteva intervenire ed è stato a guardare.
Vorrei sottolineare alcuni passaggi di questo libro. Il primo è forse la motivazione più pura che ha spinto Silvana (spero mi conceda questa informalità) a lasciare tutto ed ad andare in Ruanda. Lei scrive: "appurare i fatti, capire come siano potuti accadere, approfondire le motivazioni dei colpevoli, ascoltare i racconti dei testimoni, ovvero ristabilire la verità, significa restituire giustizia e dignità non solo alle vittime, ma a tutti gli uomini, nessuno escluso". Un omaggio alla verità e alla giustizia, un modo per affermare il principio che nulla può passare senza una ferma condanna.

La Arbia, usa per quel che è accaduto in Ruanda, un terminologia tecnica che ben fotografa la complessa situazione, scrive infatti "una cosa è certa: tra aprile e luglio 1994 in quel paese si verificò il più grande blackout delle tutele civili e giuridiche mai avvenuto nella recente storia dell'umanità". I racconti dei testimoni, e i successivi processi, confermano come nessuno abbia tutelato le vittime. Lo stato, le istituzioni religiose, l'esercito e i presidi sanitari sono stati complici, quando non diretti pianificatori, dell'orrore.

Il libro della Arbia è anche un percorso umano, denso di emozioni di fronte a racconti raccapriccianti della mattanza che avvenne in quei giorni, delle violenze, degli stupri e degli inganni. Un sentire che mai ha messo in crisi l'aspetto professionale e l'impegno straordinario che ella ha dato alla ricerca della verità. Confessa con molta onestà: "avevo avuto un momento di grande sconforto, e altri ancora sarebbero arrivati, ma ora sapevo che cosa dovevo fare: continuare come è più di prima, senza mai stancarmi". A fronte di racconti dall'orrore inaudito, Silvana scrive: "a volte, mi accadeva di sperare che tutto ciò non fosse vero. Tale era l'immagine di inumanità che emergeva puntualmente da ogni singolo evento, circostanza e racconto, che per qualche istante cercavo di dimenticarmi chi ero e cosa stavo facendo. Nel segreto di me stessa desideravo con tutte le mie forze che fosse tutta un'enorme, assurda, crudele montatura. E invece, ogni volta dovevo subito ricredermi", forse nel tentativo di trovare una soluzione ad un conflitto interiore che faceva perdere qualsiasi contatto tra la realtà di quei fatti e la bellezza dei paesaggi del Ruanda.
Il libro ruota intorno alla figura di una carnefice ("la prima è unica donna al mondo a essersi macchiata del reato di stupro di massa quale crimine contro l'umanità"), Pauline Nyiramasuhuko, al tempo del genocidio Ministro della Famiglia e della Promozione femminile, condannata all'ergastolo in primo grado il 24 giugno del 2011, e di cui la Arbia è stata principale accusatrice. 
Silvana, come già fatto da altri, giunge alla fine all'amara conclusione che "dopo anni di discussioni e ricerche, oggi è assodato che le stragi del 1994 in Ruanda potevano essere evitate ...... Mentre noi siamo rimasti a guardare".

In questo libro Silvana Arbia ha messo in gioco tutta la sua competenza giuridica, tutto il suo coraggio, tutta la sua caparbietà e la grande passione per l'Africa che come lei scrive l'ha accompagnata fin dall'adolescenza. Vi è anche un capitolo del libro (il XIV) che Silvana dedica a Dian Fossey, la primatologa assassinata in Ruanda nel 1985. Un omaggio al coraggio di un'altra donna straordinaria, ma anche una lettura diversa della sua scomparsa e forse in continuità con quanto avvenuto, solo 9 anni dopo, nel paese e su cui per ora, nessuno ha indagato a sufficienza.


Sono convinto che Silvana Arbia sia una di quelle donne che dobbiamo tutti ringraziare per l'enorme contributo alla conoscenza (oltre che alla giustizia) su di un episodio che l'intera umanità porterà a vita sulla propria coscienza.


Silvana Arbia è nata a Senise, piccolo paese in provincia di Potenza,è cresciuta a Venezia (si è laureata a Padova). ha fatto il magistrato a Milano presso la corte d' appello. Dal 1999 è magistrato internazionale presso il Tribunale penale internazionale per il Ruanda (TPIR).

Vi posto anche questa sua intervista su Diritto.net





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domenica 8 gennaio 2012

Donne al potere nel mondo - 2011

Dopo aver pubblicato la lista dei più longevi Capi di Stato e di Governo in carica, affrontiamo ora la questione al femminile.

Di 349 Capi di Stato e di Governo in carica al 31 dicembre 2011 solo 24 erano donne (il 6,8%). Sebbene il numero delle donne al potere aumenta di un'unità rispetto al 2010 (vedi Donne al Potere 2010), continua a rappresentare un fatto purtroppo marginale.

Solo due paesi al mondo, la Danimarca e l'Australia (lo scorso anno erano Finlandia e Australia), al 31 dicembre 2011, avevano sia il Capo di Stato che il Capo di Governo donne.

Ma andiamo per ordine.
L'Europa è il continente dove si trovano il maggior numero di donne (10) (erano 11 lo scorso anno) a Capo di Stato o di Governo esse sono, in ordine di anzianità alla carica:

- Regina Elisabetta II d'Inghilterra (Regno Unito)
- Regina Margherita II di Danimarca
- Regina Beatrice d'Olanda
- Presidente Finlandia, Tarja Halonen
- Ceancelliere Germania, Angela Merkel
- Primo Ministro Islanda, Johanna Sigurdardottir
- Primo Ministro Croazia, Jadranka Kosor
- Presidente Federale Svizzera, Micheline Calmy-Rey
- Primo Ministro Slovacchia, Iveta Radicova
- Primo Ministro Danimarca, Helle Thorning-Schmidt

Sono 4 le donne in Centroamerica (come lo scorso anno), ovvero:

- Governatore Generale Saint Lucia, Perlette Louisy
- Governatore Generale Antigua e Barbuda, Louise Lack-Tack
- Presidente Costa Rica, Laura Chinchilla
- Primo Ministro Trinidad e Tobago, Kamla Persad-Bissessar

Tre (3) (erano 2 lo scorso anno) le donne alla guida di paesi dell'Asia:

- Presidente India, Pratibha Patil
- Primo Ministro Bangladesh, Sheikh Wajed
- Primo Ministro Thailandia, Yingluck Shinawatra

In Oceania sono 2 (come lo scorso anno) le donne che guidano Governi o Stati:

- Governatore Generale Australia, Bryce Quentin
- Primo Ministro Australia, Julia Gillard

Due (2) anche in Sud-America ( era 1 lo scorso anno).

- Presidente Argentina, Cristina Kirchner
- Presidente Brasile, Silma Rousseff 

Due (2) anche in Africa, (era una lo scorso anno):

- Presidente della Liberia, Ellen Johnson-Sirleaf
- Primo Ministro del Mali, Cissè Mariam Sidibè (nella foto in alto)


Infine, nei Paesi dell'Ex-URSS è una sola la donna a Capo di Stato (erano 2 nel 2010):

- Presidente Lituania, Dalia Grybauskaite



Ecco la classifica delle dieci donne che da più tempo detengono il potere nel mondo:
1° - Regina Elisabetta d'Inghilterra (dal 1952), secondo posto assoluto dopo il Re di Thailandia
2° - Regina Margherita di Danimarca (dal 1972), quinta assoluta
3° - Beatrice d'Olanda (dal 1980) , quattordicesima assoluta
4° - Governatrice di St. Lucia, Perlette C. Louisy (dal 1997)
5° - Presidente della Finlandia, Tarja Halonen (dal 2000)
6° - Cancelliera di Germania, Angela Merkel (dal 2005)
7° - Presidente della Liberia, Ellen Johnson Sirleaf (dal 2006)
8° - Governatrice di Antigua e Barbuda, Loiuse Lake-Tack (dal 2007)
9° - Presidente India, Pratibha Patil (dal 2007)
10°- Presidente Argentina, Cristina Kirchner (dal 2007)

Questi numeri confermano ancora una volta come la rappresentanza femminile nel mondo della politica che conta, sia ancora un fatto residuale.
Ad oggi solo 76 dei 193 paesi indipendenti (il 39%) del mondo sono stati governati almeno un giorno da una donna nella loro storia.
Centroamerica (60%), Europa (59%) e Sud America (58%) sono le aree del pianeta dove si sono avute (o si hanno) più donne alla guida di uno stato. Dietro di loro, l'EX-URSS (40%), l'Asia (35%) e l'Africa (28%).  Fanalino di coda il Medio Oriente che su 13 stati sovrani solo uno ha avuto almeno iìuna donna al potere (quell'unico stato è Israele).
Questo dato del Medio-Oriente non deve farci indurre in facili conclusioni. Vi sono grandi paesi mussulmani come il Pakistan che sono stati governati più volte da donne, di contro vi sono grandi democrazie come gli Stati Uniti e l'Italia che non hanno mai avuto una donna a capo del governo o dello Stato.



Per quanto riguarda le donne al potere in Africa, vi rimando al mio post su questo tema di oltre un anno fa, purtroppo la situazione è rimasta identica. Vi segnalo anche questo post di Sancara sulle donne nei parlamenti.

lunedì 2 gennaio 2012

Attaccati al potere - 2011

Come è oramai tradizione, Sancara all'inizio di ogni anno pubblica la lista dei leader politici da più tempo alla guida di uno Stato (come Capi di Stato o di Governo), la situazione delle donne al potere e un'analisi sull'età dei governanti del mondo.
Tutte le liste sono aggiornate al 31 dicembre 2011.

Per la situazione dello scorso anno si veda Attaccati al Potere 2010.

La lista è frutto di una personale elaborazione comprendente i 349 capi di stato o di governo in carica in tutti i paesi del mondo sovrani e 486 capi di stato o di governo che hanno superato (consecutivamente o meno) i 10 anni al potere a partire dal 1900 e in paesi indipendenti.


L'uomo che nel mondo da più tempo guida un paese è il Re di Thailandia, Bhumibol (nella foto), attaccato al suo regno dal lontano 1946, ecco comunque la lista completa dei primi 10 posti.


1° - Re Bhumibol di Thailandia - al potere dal 9 giugno 1946 (oltre 65 anni), salì al potere a 19 anni, oggi ha 84 anni 
2° - Regina Elisabetta d'Inghilterra, incoronata il 6 febbraio 1952 (quasi 59 anni, oggi ha 85 anni) 
3°- Sultano Qabus ibn SAID dell'Oman, al potere dal 23 luglio 1970 (quasi 41 anni)
4° - Sceicco Sulman al Khalifah del Bahrain, al potere dal 16 agosto 1970 (quasi 41 anni)
5° - Regina Margherita II di Danimarca, incoronata il 14 gennaio 1972 (39 anni al potere)
- Re Carlo XVI Gustavo di Svezia, incoronato il 15 settembre 1973 (da 38 anni Re)
- Presidente Paul Biya del Camerun, al potere dal 30 giugno 1975 (Primo MInistro fino al 1982, poi Presidente per un totale di quasi 36 anni)
- Re Juan Carlos I di Spagna, incoronato il 22 novembre 1975 (da 36 anni)
-Presidente Ali Abdullah Saleh dello Yemen, al potere dal 18 luglio 1978 (prima dell'unificazione dello Yemen, ovvero da quasi 33 anni)
10°- Presidente Moumoon Abdul Gayoom delle Maldive, al potere dall'11 novembre 1978, ovvero da oltre 32 anni).


In rosso l'unico leader africano di questa speciale classifica. La lista prosegue con altri paesi africani come al 11° posto Teodoro Nguema - Guinea Equatoriale dal 3 aprile 1979, al 12° Edoardo Dos Santos in Angola dal 10 settembre 1979, al 13° Robert Mugabe in Zimbabwe dal 18 aprile 1980 e al 18° Yoweri Museveni in Uganda dal 18 aprile 1980.

Da notare, rispetto al 2010, l'uscita di scena dell'ex leader libico Gheddafi, che occupava il terzo posto e del leader egiziano Hosni Mubarak che era al 17mo posto, frutto di quell'ondata di cambiamenti che ha attraversato i paesi arabi del nordafrica.
Nonostante questo, l'Africa continua ad essere il luogo del pianeta dove più difficilmente sembra esserci un ricambio democratico. Infatti, tolti i monarchi (che spesso hanno un ruolo marginale nella vita politica) è il camerunese Paul Biya (nella foto) il primo "civile" da più tempo al potere, seguito dai presidenti dello Yemen e delle Maldive e poi, nell'ordine, dai leader africani della Guinea Equatoriale, dell'Angola, dello Zimbabwe, della Cambogia, dell'Uganda, del Burkina Faso, del Sudan, del Ciad e dell'Etiopia.


Il Re di Thailandia detiene anche il record assoluto della maggiore "longevità al potere" dell'era moderna. Ovvero a partire dal 1900 e per stati sovrani.
Dietro di lui:
2°-Imperatore del Giappone Hirohito ( dal potere dal 1926 al 1989),l'unico, assieme al re di Thailandia, ad aver superato i 60 anni al potere.
3°-Regina Elisabetta (ancora in carica),
4°-Principe Rainieri II di Monaco (1949-2005),
5°-Re Haakon VII di Norvegia (1905-1957),
6°-Principe Franz Joseph II di Liechtestein (1938-1989), l'ultimo ad aver superato i 50 anni al potere.
7°-Fidel Castro a Cuba (1959-2008),
8°-Regina Guglielmina d'Olanda (1900-1948),
9°-Re Hussain di Giordania (1952-1999)
10°-Kim il Sung della Corea del Nord (1948-1994).

Tra gli altri africani in questa lista troviamo al 14° posto Il negus Haile Salassie di Etiopia (al potere dal 1930 al 1976), al 19° posto il libico Gheddafi (1969-2011) e al 20° posto Omar Bongo del Gabon (1967-2009).

Infine vale la pena ricordare che nel corso del 2011 sono stati assassinati 3 uomini politici che avevano ricoperto nella loro vita incarichi di governo o di capi di stato. Il primo, il 22 agosto è stato Abdul Aziz Abdul Ghani, ex primo ministro dello Yemen (1975-80 Yemen Sana e dal 1994-1997 Yemen Unificato), assassinato durante un attacco al palazzo presidenziale. Poi, il 20 settembre è toccato all'ex Presidente dell'Afganistan (1992-96 e 2001) Burhanuddin Rabbani, morto a seguito di un attentato con un'autobomba e infine, il 20 ottobre, l'ex leader libico Mohamar Gheddafi, assassinato con un colpo d'arma da fuoco durante la guerra civile libica.