mercoledì 29 agosto 2012

Stati in via di fallimento, i dati del 2012

Lo scorso luglio, The Fund for Peace, organizzazione indipendente americana nata nel 1957, ha stilato l'annuale classifica Failed State Index. Una classifica di 177 stati del mondo che tiene conto di 12 indicatori sociali, economici e poltici (dopo aver analizzato milioni di documenti ufficiali) e che ha lo scopo di favorire le azioni e lo studio di poltiche capaci di prevenire e ridurre i conflitti che generano le guerre. La questione degli stati in via di fallimento è molto seria, poichè stando agli analisti (si veda il post di Sancara del 2010 su questo tema: Stati in via di fallimento: il trionfo dell'Africa) i paesi "falliti" o vicini ad esserlo (ovvero con strutture statali inesistenti e incapaci di controllare il proprio territorio) rappresentano un rischio e una minaccia internazionale di enorme portata. Essi sono infatti focolai di ogni forma di illegalità quali il terrorismo, i traffici illeciti di droghe e armi, oltre che di uomini e profughi,  e rappresentano un rischio anche per la diffusione di gravi malattie.
Del resto è difficile non essere d'accordo sul fatto che, in assenza di istituzioni credibili e capaci di essere punto di riferimento per i cittadini e per la "comunità" internazionale, gli Stati sono in preda alla "legge del più forte". Non a caso da anni in testa a questa speciale classifica vi sono paesi come la Somalia (da oltre 20 anni senza un goevrno) e la Repubblica Democratica del Congo (in cui intere zone, ricche di materie prime, sono sotto il controllo di bande e personaggi loschi di ogni specie).

Somalia, foto Jeffrey Gettleman
La classifica del 2012 vede 33 stati nella zona definita di "allerta" (punteggio maggiore a 90). Erano 37 nel 2010 e 35 nel 2011. Di questi 33 stati 21 sono paesi africani (che diventano 22 se aggiungiamo il Sud Sudan, inserito in classifica ma, con dati incompleti). Sia nel 2010 che nel 2011 gli stati africani nella fascia di allerta erano 22. 
Ecco la lista dei primi 10 posti, ovvero gli stati più prossimi al fallimento (i primi due sono, di fatto, già tecnicamente falliti).
- Somalia
- RD Congo
- Sudan
- Ciad
- Zimbabwe
- Afghanistan
- Haiti
- Yemen
- Iraq
- Repubblica Centro Africana

Sono poi 92 gli stati nella fascia di "attenzione" (92 nel 2010 e 89 nel 2011), 39 quelli inseriti nella fascia di "moderata sostenibilità" (34 nel 2010 e 40 nel 2011), infine 13 quelli definiti "sostenibili" (13 nel 2010 e 12 nel 2011).
A capeggiare la classifica in senso positivo si riconferma la Finlandia (era la Norvegia nel 2010), seguita da Svezia, Danimarca, Svizzera, Norvegia, Lussemburgo, Nuova Zelanda, Irlanda, Canada, Austria, Olanda, Islanda e Australia.

RD Congo, Profughi nel Kivu (www.ingeta.com)
Per l'Africa resta il primato delle Isole Maurizio (147°, la classifica è al contrario, la Finlandia è infatti 177°) che precede l'Italia (146°). Mentre la prima nazione dell'Africa continentale è il Botswana (117°) che precede il Sudafrica (115°) e il Ghana (112°).

Se è vero che le classifiche degli ultimi 3 anni si differenziano di poco, è bene sottolineare alcune specificità. La prima, e forse la più evidente, è quella della Libia, che per le note vicende (e per quelle purtroppo ancora in corso) balza dalla 111° posizione alla 50° (tra l'Angola e la Georgia).
Stessa sorte, con variabili differenti, per le altre nazioni della "cosidetta primavera araba": l'Egitto e la Tunisia perdono 14 posizioni. Mentre la Siria (i cui fatti si sono molto aggravati dopo la compilazione della lista ) perde per ora 25 posizioni. 
Vale la pena sottolineare anche il calo della Grecia (al 138° posto), sebbene meno evidente di quello che si potrebbe pensare (del resto chi ha visitato la Grecia questa estate racconta di una situazione migliore, per ora, di quella che viene descritta dai nostri media).

In senso positivo è bene ricordare le 15 posizioni guadagnate da Cuba, le 11 della Repubblica Domenicana e le 10 del Kirgyzstan e della Bosnia.
Vedi i post di Sancara sullo stesso tema:
Stati in via di fallimento: il trionfo dell'Africa

martedì 28 agosto 2012

Movimento Popular de Libertacao de Angola (MPLA)

La bandiera dell'MPLA
Il Movimento Popolare di Liberazione dell'Angola (Movimento Popular de Libertação de Angola, MPLA) nacque il 10 dicembre 1956, a Luanda, dalla fusione del clandestino Partito Comunista Angolano (PCA, fondato nel 1955 ad opera dei fratelli Mario e Joaquim Pinto de Andrade, il primo poeta il secondo un prete cattolico), il Partito della Lotta Unita per gli Africani in Angola (PLUA, nato nel 1953) e alcuni altri gruppi minori. A guidare la nuova formazione fu il già segretario del PCA, il poeta Viriato Clemente da Cruz (poi uscito dall'MPLA e morto in una sorta di esilio, più o meno volontario, in Cina).
La nuova formazione culturalmente nasceva tra gli intellettuali e scrittori di Luanda, che si erano formati in Portogallo o in Unione Sovietica, legati ai gruppi comunisti o socialisti europei e per la maggioranza di etnia Mbuntu.

Nel 1960 a guidare (fino al 1962) l'MPLA fu chiamato il poeta Mario Pinto de Andrade - che aveva studiato filologia a Lisbona e sociologia alla Sorbona di Parigi, il quale diede inizio all' opposizione militare alla colonizzazione portoghese. Importante fu anche il rapporto, la collaborazione e il coordinamento con gli altri partiti che lottavano contro l'impero portoghese in Africa e in particolare in Guinea Bissau e Capo Verde (con il PAIGC), in Mozambico (con il FRELIMO) e a Sao Tomè (con il CLSTP, divenuto poi MLSTP), oltre che l'appoggio dei partiti comunisti europei. La sinistra europea sostenne fortemente la causa dell'MPLA, soprattutto negli anni '70 e '80 (qualcuno forse ricorda qualche slogan durante le manifestazioni studentesce che recitava "M.P.L.A.,  in Angola vincerà").

Agostinho Neto
La prima azione contro i portoghesi dell'MPLA ebbe luogo, il 4 febbraio 1961 con l'attacco alla prigione di Luanda dove erano vi erano detenuti politici. Tale atto segnò l'inzio di una sanguinosa guerra d'indipendenza che durò fino al 1975.
Dal 1962 alla guida dell'MPLA fu il medico e poeta Agostinho Neto, che portò il paese all'indipendenza (l'11 novembre 1975) divenendo il primo Presidente dell'Angola.
Nel novembre 1963 l'MPLA trasferì la sua sede prima a Leopoldville (oggi Kinshasa) e poi a Brezzaville.
La guerra di liberazione dai portoghesi (1961-1975) fu combattuta assieme al FNLA - Fronte nazionale di Liberazione dell'Angola (il cui primo nucleo nacque nel 1954 da gruppi di etnia Bakongo) guidato da Roberto Holden e dall'UNITA - Unione Nazionale perl'Indipendenza Totale dell'Angola (gruppo uscito dal FLNA nel 1964 e composto da membri di etnia ovimbundu) guidato da Jonas Savimbi.
Tra alterne vicende e momenti di alleanza tra i tre gruppi,  che nel 1972 sfociarono in un fronte comune, si arrivò alla vittoria militare contro i portoghesi (grazie anche alla sconfitta della dittatura portoghese a seguito della rivoluzione dei garofani avvenuta il 25 aprile 1974).
Poco prima dell'indipendenza nel 1974, l'ex presidente De Andrade abbandonò l'MPLA, in aperto contrasto con Neto, fondando la Revolta Activa. Visse in esilio fino alla sua morte avvenuta nel 1990.
Guerriglieri MPLA (dalla rete)
Nel gennaio 1975 Neto, Holden e Savimbi firmarono un accordo per l'indipendenza piena che sarebbe avvenuta nel novembre 1975. Gli accordi durarono poco. I tre gruppi si scontrarono per il controllo di Luanda e già in agosto del 1975 truppe Sudafricane varcarono i confini in appoggio al FNLA e all'UNITA (sostenuti anche dallo Zaire di Mobutu e dagli Stati Uniti). All'inizio di novembre 1975 sbarcarono in Angola truppe cubane (sostenute anche dall'Unione Sovietica) in appoggio all'MPLA. Quando l'11 novembre 1975 Agostinho Neto pronunciò il suo discorso alla nazione come primo Presidente, la guerra civile era già scoppiata. La guerra d'Angola durerà, con alterne vicende (ad esempio il FNLA di Roberto Holden, uscirà presto di scena e nel 1979 Neto morirà per un tumore al pancreas) fino al 2002 quando il leader dell'UNITA Jonas Savimbi (che controllava il sud-est del paese) fu ucciso in battaglia quando oramai era militarmente in grande difficoltà. Dopo oltre un milione di morti e 4 milioni di profughi, si chiudeva uno dei capitoli più bui dell'Africa.
Nel 1979 alla morte di Agostinho Neto (avvenuta il 10 settembre 1979) , a prendere le redini del partito e della nazione (nonchè delle strategie militari nella guerra civile) fu Josè Edoardo Dos Santos (un ingegnere laureato in Unione Sovietica e giovane aderente al partito fin dal 1956).

Politicamente, durante il primo congresso dell'MPLA, avvenuto nel 1977, il partito si dichiarò marxista-leninista (concetto abbandonato nel 1990 a favore del socialismo democratico).
Nel 1983 l'MPLA aggiunse la dizione Partido do Trabalho (Partito del Lavoro, PT) al suo nome. Ancora oggi aderisce all'Internazionale Socialista.

Edoardo Dos Santos, durante la campagna elettorale
Il lungo periodo della guerra civile ha giustificato una serie di azioni (e perfino di ingiustizie) all'interno del Paese. Del resto la posta in gioco era alta e l'MPLA si reggeva su solide basi ideologiche che in tempo di guerra davano speranza e futuro (anche illusorioni) ad un popolo sofferente. La guerra civile si caratterizzò, oltre che come scontro tra le grandi potenze (e la loro influenza) in Africa fino alla caduta del muro di Berlino, come uno scontro ideologicò che si allargò ben oltre i confini del paese. La guerra fu pagata grazie alle enormi risorse del paese: il petrolio (in mano al governo) e i diamanti (in mano all'UNITA).
Quando nel 1992 vi furono le prime elezioni multipartitiche (a seguito di un fragile accordo di pace), l'MPLA conquistò il 53,74% dei consensi contro il 34,1% dell'UNITA. Alle presidenziali Dos Santos raggiunse il 49,5% e Savimbi il 40,7%. Il secondo turno non fu mai organizzato perchè Savimbi non riconobbe i risultati e tornò a combattere.
Nel 2008 - alle prime elezioni del post-guerra - l'MPLA ha raggiunto l'82% dei consensi, mentre l'UNITA si è fermata al 10% e il rinato FNLA al 1%. La volontà degli angolani, al di là di ogni ragionevole dubbio, è risultata chiara.
Campagna elettorale
Ora il 31 agosto 2012 si terranno le elezioni legislative in Angola (con una legge del 2010 è stata abolita l'elezione diretta del Capo dello Stato) e l'MPLA dovrà riconfermare la sua forza di governo e il suo potere attrattivo in tempo di pace. Una scommessa non facile in un paese che soffrè di grande ancora di grandi ingiustizie sociali, di una elevata forbice tra ricchi e poveri e di sacche di povertà ancora estreme. Al tempo stesso l'Angola è un paese con un'economia che corre, molto.
Non a caso gli slogans di questa campagna elettorale è "trasformare gli ideali in realtà" e "tutte le cose più difficili sono già state fatte". Una scommessa che l'MPLA, i cui vertici sono accusati - ora che non si combatte più - di corruzione, interessi personali e di utilizzare le enormi ricchezze per i propri fini (ecco un articolo recente di Alain Vicky sulla situazione politica attuale).
Dal blog di Alessandro Cavaglià, Orizzonte Duemila è possibile seguire gli sviluppi della campagna elettorale, mentre il sito dell'MPLA è stato trasformato in una network elettorale chiamato MPLA2012.

Tra gli approfondimenti vi suggerisco lo splendido libro di Ryszard Kapuscinki Ancora un giorno, che narrà i giorni dell'indipendenza e dell'inzio della guerra civile.
Mentre sulla complessa storia angolanail recente (Carocci,2011) L'Angola indipendente di Maria Cristina Ercolessi.

Vai al sito ufficiale dell'MPLA
Vai alla pagina di Sancara sui Partiti Politici dell'Africa

lunedì 27 agosto 2012

Cinema: Africa Addio

Africa Addio, è un film documentario del 1966, girato da Franco Prosperi e Gualtiero Jacopetti. Un film - poco adatto agli stomaci deboli - che ha suscitato, al tempo della sua uscita, aspre polemiche. Definito scomodo, disonesto, cinico, parziale, irritante e politicamente scorretto, tanto per citare alcune delle critiche più diffuse, voleva rappresentare (e raccontare) l'Africa durante la fine del colonialismo e il passaggio del testimone del governo agli africani.
Il film ebbe un buon successo di pubblico (vinse anche un David di Donatello ex-equo come miglior produzione) e fu molto criticato. Accusato di razzismo e di apologia del colonialismo, mentre gli autori furono accusati di aver manipolato le immagini (cosa poi parzialmente ammessa) e di essere filo-fascisti. Il film, così come le critiche, debbono essere contestualizzate. Negli anni sessanta il processo di decolonizzazione fu ostacolato da una parte politica e favorito da un'altra, su questo non vi è ombra di dubbio.
Girato in tre anni di lavoro, il film cinematograficamente è un buon prodotto.

Per chi ama l'Africa, per chi vuole conoscere l'Africa e per chi vuole serenamente giudicare quest'opera è un film senz'altro da vedere (se le immagini forti non vi disturbano).

Guardandolo ci si immerge in una sagra di orrori, che sotto certi versi anticipano quello che in diverse occasioni - e spesso in modo numericamente più tragico - è avvenuto in Africa nei 50 anni successivi. Esecuzioni sommarie, genocidi, amputazioni, strerminio di animali e violenze.
Naturalmente oltre che dalle immagini, anche dal commento degli autori è possibile comprendere l'irritazione che il film destò alla sua uscita (l'uso ossessivo del termine negro, alcune affermazioni storicamente errate, alcune semplicistiche valutazioni dei fatti avvenuti e la totale decontestualizzazione dei fatti).
Il punto centrale del film è il passaggio dall'amministrazione coloniale a quella africana. Si sottolinea da una parte l'ordine e la bellezza (i giardini delle case coloniche, le norme a protezione degli animali, i prodotti provenienti da ogni parte del mondo, le tranquille missioni, la vita dei bianchi e perfino la caccia alla volpe fatta da un pezzo di volpe trascinato con una corda da un ragazzino africano) e dall'altra il caos e la violenza (i Mau-Mau e le loro violenze, gli stermini degli animali, i saccheggi, la distruzione delle merci, i genocidi e gli assalti alle missioni).
Foto di una scena del film
E' bene sottolineare che gli autori non risparmiano critiche anche all'amministrazione coloniale e ai bianchi. Certo ai coloni non vengono addossate responsabilità di quanto avverrà poi in Africa, cosa forse non del tutto corretta. 
Del resto durante il film parlando dei "ribelli" dell'Angola si afferma che "hanno voluto ignorare il motto bianchi e neri, tutti portoghesi", dimenticando che il Portogallo si trova ad oltre 1000 chilometri di distanza. Oppure quando si afferma che "l'Africa non è più quella antica degli esploratori" dimenticando che la storia dell'Africa inizia molto prima e indipendentemente dagli esploratori.
Così come stride la definizione del Sudafrica come "un miracolo" nel bel mezzo dell'apartheid e dopo aver mostrato l'oro e le borse del Sudafrica (con tutti bianchi) e i lavoratori delle miniere (con tutti neri). Oppure dopo aver documentato giovani ragazze zulu durante le riprese di un film ed aver commentato come la ragazza zulu, ora emancipata e vestita, "nuda era una preda come una femmina negra".
Infine come non irritarsi a fronte di una immagine dei mercenari bianchi (quelli di Ciombè in Congo) e ai parà belgi descritti come salvatori dei bianchi in Congo e a protezione delle violenze dei neri (ma come? i militari belgi non erano gli stessi che avevano sciolto nell'acido l'ex primo ministro Lumumba?).

Certo il genocidio degli arabi a Zanzibar durante la rivoluzione del 1964 (fatto ancora poco studiato), sebbene con qualche imprecisione storica sulla figura dell'ugandese John Okello, è sconvolgente, così come lo sono il mucchio di mani amputate in Sudan, i cadaveri ammucchiati nel Congo e gli ippopotami e gli elefanti streminati in Kenya. L'Africa, lo sappiamo, ha prodotto (e purtroppo contunua a farlo) anche queste orribili nefandezze, frutto del più barbaro animo umano, paragonabile agli orrori che gli stessi bianchi hanno compiuto in Africa e altrove.

Il film si chiude con i pinguini del Sudafrica - giunti dal Polo - ed ora stranieri in questa terra.

Insomma un film intriso di contraddizioni e per questo assolutamente da vedere.

Posto anche questo articolo su Africa Addio di Francesco Lamendola, per chi vuole approfondireanche le critiche che furono fatte al film.

Vai alla pagina di Sancara sui Film sull'Africa

venerdì 24 agosto 2012

Medecins Sans Frontieres - Medici Senza Frontiere (1971)

Medicines Sans Frontieres (MSF) nasce nel 1971 a seguito dell'esperienza di alcuni medici francesi (con loro anche dei giornalisti) durante la Guerra del Biafra (1967-1970) in Nigeria. I medici, tra cui Bernard Kouchner, erano impegnati con la Croce Rossa e subivano le continue pressioni dei militari nigeriani che gli impedivano di portare soccorso alle popolazioni Igbo del Biafra, assediate. Nacque quindi un nuovo modo di concepire l'intervento umanitario, non più assolutamente neutrale e equidistante, ma attivo e capace di denuciare abusi e violenza da qualsiasi parte essi provenivano.  Nacque così nel 1970 un piccolo gruppo, chiamato Groupe d'Intervention Médicale et Chirurgicale en Urgence che il 20 dicembre 1971 diede vita, assieme ad un altro gruppo proveniente dall'esperienza di soccorso alle devestanti alluvioni nel Pakistan Orientale (attuale Bangladesh), a Medicines Sans Frontieres. L'organizzazione si prefiggeva (e ancora si prefigge) l'intervento umanitario indipendente in ambito sanitario, senza distinzione di razza, credo o altro. Un intervento però in cui i diritti dell'uomo sono anteposti a qualsiasi ragione di neutralità o equidistanza.
Questa questione del "diritto di ingerenza" sarà molto dibattuata all'interno dell'organizzazione e contribuirà a scissioni e uscite clamorose. Tra i fondatori, Bernard Kouchner, uscì ad esempio nel 1980 in aperto dissenso con il presidente (dal 1977) Claude Malhauret. 
Kouchner, cresciuto nel partito comunista e poi in quello socialista francese, fondò nel 1980 l'organizzazione Medicines du Monde. Fu poi sottosegretario di governo e Ministro della Sanità nei governi socialisti e recentemente (2007-2010) Ministro degli Affari Esteri con Sarkozy (pur avendo appoggiato in campagna elettorale l'esponenete socialista sconfitto e per questa ragione fu espulso dal Partito Socialista). Del resto la carriera politica dei primi dirigenti di MSF ha coinvolto anche Claude Malhauret che è stato, sottosegretario agli Interventi Umanitari, e dal 2001 e' sindaco di Vichy.
Il primo intervento di MSF fu il soccorso durante il terremoto del Nicaragua nel 1972.
Oggi MSF comprende 23 sezioni distribuite in molti paesi del mondo, tra cui l'Italia e lavora in oltre 60 paesi in via di sviluppo o con emergenze umanitarie in atto.


Campo profughi, dalla rete
Medici senza frontiere, per usare l'espressione italiana, è senz'altro la più conosciuta tra le Organizzazioni non Governative. Il suo operato - sempre in prima linea e tra le prime ad intervenire - si è sempre distinto per efficienza e per la grande capacità di risposta in tutte le crisi sanitarie. Contestualmente è oramai una "agenzia" di informazione, capace di far giungere il grido di dolore dei disperati di qualsiasi angolo del pianeta. Notevoli sono anche gli sforzi fatti dall'organizzazione verso campagne di sensibilizzazione della popolazione mondiale verso alcuni delicati temi, primo tra tutti quello dell'accesso ai farmaci essenziali.
La sua importanza è cresciuta di anno in anno tanto che  nel 1999 MSF ha ricevuto il Premio Nobel per la Pace come riconoscimento "del lavoro umanitario pioneristico dell'organizzazione in diversi continenti". 
Contemporaneamente è cresciuto l'uso dell'idioma "senza frontiere" ed oggi vi sono associazioni di avvocati, veterinari, giornalisti e più o meno ogni altra categoria che usano questa dizione. Mai nome fu più indovinato!

Stando ai dati finanziari del 2011, circa il 90% dei fondi raccolti sono da imputarsi a donazioni private. MSF ha un bilancio annuale di circa 900 milioni di euro, di cui l'82% speso per le missioni.

Per chi vuole approfondire ecco il Report delle attività nel 2011.

Il sito ufficiale di Medicines Sans Frontieres
Sito ufficiale di Medici Senza Frontiere Italia
Sito ufficiale di Doctors without Borders (Stati Uniti)

giovedì 23 agosto 2012

Riserva Faunistica Dja

foto da Wikipedia
La riserva faunista Dja (prende il nome dall'omonimo fiume) si trova nel sud del Camerun e occupa una superficie di 5.260 chilometri quadrati. L'area, interamente collinare (tra i 400 e gli 800 metri),  è quasi completamente circondandata dal fiume Dja, un affluente del Congo. Dal 1987 è diventata, a causa della sua alta biodiversità (oltre 100 specie solo di mammiferi, 320 specie di uccelli oltre che 1500 specie di piante), Patrimonio dell'Umanità UNESCO. mentre già dal 1981 era stata iscritta tra le riserve della biosfera. L'iscrizione tra le Riserve della Biosfera è stata voluta per la presenza all'interno dell'area di un gruppo di pigmei di etnia Baka (erano 37 villaggi nel 1999 con circa 3000 persone, comprese alcune etnie di origine bantu), gli unici oggi autorizzati a cacciare - sebbene con i metodi tradizioniali - all'interno della riserva. Le condizioni di vita dei Baka, ancora fortemente legati alle tradizioni ed ad un grande rispetto per la foresta, consentono di affermare che l'impatto umano all'interno della riserva è minimo.

Foto Miguel Alfonso, dalla rete
E' ritenuta una delle foreste pluviali originali più protette dell'Africa, oltre il 90% del suo territorio è ad uso esclusivo degli animali che in essa vi abitano. Esse è in grande continuità con le foreste pluviali del Gabon e del Congo con cui costituisce un unico ecosistema quanto più simile alle sue origini.
Fondata nel 1950 come riserva integrale (sebbene fin dal 1932 vi era una sorta di protezione dell'area).
Tra gli animali che abitano la riserva vi sono 14 specie di primati, alcuni dei quali a serio rischio di estinzione, (tra cui il Gorilla occidentale di pianura, lo scimpanzè e il mandrillo), l'elefante della foresta, il bufalo, numerose specie di antilopi e il leopardo.
 
I primati - gorilla e scimpanzè in particolare sono minacciati dal virus Ebola che ha notevolmente ridotto la popolazione (si stima di oltre un terzo).

La riserva è gestita dal governo del Cameroun (in particolare dal Ministero del Turismo) ed al suo interno si sviluppano numerosi progetti di conservazione e tutela della foresta 
Recentemente la riserva è stata aperta all'eco-turismo ed è possibile alloggiare all'interno e svolgere (nelle stagioni secche) dei trakking con guide Baka o Bajui. 

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mercoledì 22 agosto 2012

Popoli d'Africa: Chaga

I Chaga (o Chagga), chiamati anche Wachaga, sono un gruppo etnico della Tanzania che vive alle pendici del Monte Kilimangiaro e del Monte Meru. Essi, con circa 2 milioni di persone (erano, nel censimento del 1988 750 mila), sono il terzo gruppo etnico del paese. Parlano il kichagga, una lingua bantu. I Chaga sono giunti, provenienti dal Nord-Est, presso il monte Kilimanjaro, da loro ritenuto sacro, a partire dal XI-XII secolo assimilando gran parte degli abitanti del luogo di etnia Ongamo. Sono abili agricoltori (oltre che allevatori) e conosciuti per i loro sistemi di terrazzamento e per i sistemi di irrigazione basato su di una fitta rete di canali. Coltivano banane, cereali e, dall'epoca coloniale, il caffè. Oggi i Chaga sono i maggiori produttori del caffè di qualità arabica del Kilimanjaro e ne detengono il commercio con l'estero. Fin dagli anni 20' furono promotori di sistemi di cooperative per sostenere il nuovo mercato, che sebbene di proprietà dei Chaga, furono amministrate dagli inglesi fino all'indipdendenza della Tnaganika (poi Tanzania).
I primi europei che giunsero da queste parte descrissero con molta enfasi i complessi sistemi di irragazione che questo popolo aveva architettato. Oggi è consolidato il fatto che da secoli i Chagga hanno trovato soluzioni al problema dell'irrigazione in aree non pianegganti facendola diventare una vera e propria arte.
Furono tra i primi a convertirsi al cristianesimo (accettando tra di loro i missionari a partire dal 1848 quando il primo, Johannes Rebmann giuse in quest'area), sebbene non mancano (pochI9 islamici e continuano a  sopravvivere, con un ruolo soprattutto cerimoniale, le religioni tradizionali che riconoscono come principale divinità Ruwa. Tra i loro riti vi è quello dell'inziazione maschile (che segue la circoncisione) che ha destato, per la sua complessa simbologia, molto interesse da parte degli antropologi.
Ebbero scontri con altre etnie, in particolare con i Masai nel diciottesimo secolo quando questi uccisero  il loro capo Horombo. Furono anche buoni alleati dei tedeschi quando questi colonizzarono quest'area della Tanzania.
Oggi in area rurale vivono in piccoli villaggi composti da clan patrilineari, mentre sono tra le popolazioni più ricche e potenti della Tanzania grazie ai guadagni delle coltivazioni di caffè e al fatto di avere una alta scolarità.

I sistemi di coltivazione e irrigazione dei Chagga sono usati anche nei loro giardini. Vi segnalo questo interessante articolo di Claudia e Andreas Hemp che approfondiscono anche l'interessante tema della la sostenibilità di queste opere e il risparmio di terreno (in un'area che negli ultimi decenni è diventata densamente popolata).

Vai alla pagina di Sancara sui Popoli dell'Africa

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lunedì 20 agosto 2012

L'Africa a Londra 2012, luci e ombre

Si sono da poco concluse le XXX° Olimpiadi dell'era moderna, che Sancara ha seguito per quanto riguarda le prestazioni del continente africano, ed è giusto chiudere questo capitolo con un piccolo bilancio. Un bilancio che vede ancora l'Africa ultima tra i continenti del nostro pianeta, superata anche dall'Oceania in cui la sola Australia raccoglie l'intero numero di medaglie del continente africano.
L'Africa con 34 medaglie complessive conquistate a Londra 2012 (11 oro, 12 argento e 11 bronzo) arretra rispetto a Pechino 2008 (40 medaglie), ritornando ai livelli delle precedenti edizioni dei giochi (35 ad Atene 2004, 35 a Sidney 2000). Ecco un approfondimento di Sancara sulle medaglie africane ai giochi.
Arretra anche rispetto al numero di paesi che sono "andati a medaglia" - 10 a Londra, erano 13 a Pechino (9 ad Atene e 8 a Sidney).

In definitiva, nonostante gli sforzi che indubbiamente sono stati fatti, il continente stenta a decollare e perfino in una disciplina come le gare di fondo dell'atletica, vi è qualche piccola flessione (nelle 6 gare dagli 800 metri alla maratona, a Pechino l'Africa aveva vinto 6 ori su 6, a Londra "solo" 4 su 6). 

Vi sono stati comunque dei risultati che meritano di essere sottolineati per la loro importanza. 
Il Botswana (atletica) e il Gabon (teakwoondo) raccolgono la loro prima medaglia della loro storia olimpica, portando così a 26 i paesi africani che hanno conquistato almeno una medaglia. 

Vi è stato poi la storica prima medaglia africana (argento) nella scherma, grazie all'egiziano Alaaedin Abouekassem. Così come il primo oro nel canottaggio (nel 2004 era stato vinto un bronzo) grazie al quattro senza del Sudafrica. Per entrambi vi ho linkato il post di Sancara.

Prima medaglia africana anche per la canoa femminile - grazie al bronzo della Sudafricana Bridgitte Hardley nel K1 500m, che segue solo di un quadriennio, quella raccolta dal Togo nel settore maschile a Pechino 2008.

Habiba Ghribi, foto Souissi
Prima storica medaglia al femminile anche per la Tunisia che grazie a Habiba Ghribi ha ottenuto l'argento nei 3000 metri siepi. Per la Tunisia si tratta della decima medaglia della sua storia (la prima conquistata nel 1960), tutte però al maschile. Alla Ghribi non sono state risparmiate le critiche (con fischi e insulti durante l'arrivo all'aereoporto di Tunisi) per il suo abbigliamento di corsa (con la pancia scoperta) da parte dell'ala islamica più estremista del suo paese.
Per molte donne, invece, Habiba rappresenta un simbolo e un emblema dell'emancipazione in un delicato momento di trasformazione della società tunisina.
Per un approfondimento sulle medaglie olimpiche africane al femminile, ecco un post di Sancara.

Vale la pena anche sottolineare l'impresa sportiva dell'egiziano Karem Ibrahim Gaber, che dopo aver vinto l'oro nella lotta greco-romana (96 kg) ad Atene 2004, aver fallito la qualificazione alla zona medaglie a Pechino 2008 e riusciuto a cogliere uno straordinario argento a Londra 2012, nella categoria 84 kg. Della serie la classe non ha peso.

E' giusto anche segnalare la seconda medaglia d'oro dell'Uganda nella sua storia. Quest'anno grazie al maratoneta Stephen Kiprotich che ha saputo battere gli atleti del Kenya. La sua medaglia del metallo più prezioso giunge a 40 anni di distanza da quando a Monaco, il suo connazionale John Akii-Bue seppe vincere in una difficile disciplina (primo e unico africano a farlo) quale e' il giro di pista con ostacoli.

Oscar Pistorius a Londra, foto The Telegraph
Infine, non per importanza, è africano il primo atleta diversamente abile della storia a partecipare alle Olimpiadi per normodotati e non alle Paralimpiadi. Si tratta del sudafricano Oscar Pistorius, atleta che corre con delle protesi artificiali in fibra di carbonio al posto delle gambe (le sue gli sono state amputate da piccolo a causa di una malformazione). Pistorius dopo una lunga lotta burocratica con il Comitato Olimpico Internazionale ha ottenuto il permesso di correre assieme agli altri, dopo aver ottenuto il minimo tempo richiesto.

Insomma sicuramente ombre, ma anche alcune luci nello sport africano.

venerdì 17 agosto 2012

Dal Sudafrica un monito

Foto Corriere.it
Una buona parte dell'umanità è rimasta sconvolta dalle immagini che i telegiornali di mezzo mondo hanno trasmesso dal Sudafrica. La scena della polizia sudafricana, che spara ad altezza d'uomo, su di un gruppo di minatori in sciopero, resterà nei ricordi di molti, almeno dei più sensibili. Sono già 30 le vittime accertate della carneficina, mentre le polemiche in Sudafrica, come altrove, divampano.
I minatori della miniera di platino di Marikana - oltre 3000 - erano in sciopero, da oltre una settimana, per una rivendicazione salariale e contro l'annunciato taglio della manodopera. Le trattative tra i sindacati (due e in netto contrasto tra di loro) e la multinazionale inglese Lomlin (leader nel settore dell'estrazione del platino) erano in corso, senza risultati e progressi significati. Oggi i minatori guadagnano l'equivalente di 400 euro al mese.
La dinamica esatta della strage sarà appurata dall'inevitabile inchiesta, sebbene ai fini delle vittime e della questione generale, interessa poco.

Vi sono degli elementi che devono far riflettere, su questa questione. La prima attiene al commento che molti giornalisti hanno fatto ovvero che era dai tempi dell'apartheid che non si vedevano simili atti di repressione. Ovvero dal 21 marzo 1960 a Sheperville o dal 16 giugno 1976 a Soweto, quando la polizia sudafricana fece un'azione paragonabile a quella di ieri (a dire il vero molto peggiore). Con una grande differenza: allora a protestare erano i neri e a sparare i bianchi, oggi a protestare sono stati i neri ed a sparare quasi tutti neri.                                                            
Se è vero che la storia si ripete, a volte i protagonisti non sono gli stessi.

E' giusto analizzare questo episodio alla luce di un incompleto (e molto difficile) processo di trasformazione, democratico e multirazziale, della società sudafricana. Una situazione che ancora vede la popolazione nera marginalizzata e isolata nei suoi ghetti (sebbene con eccezioni sempre più numerose). A questo proposito vi segnalo il post Il tramonto di un sogno dal blog Buongiorno Africa.

Però vale la pena soffermarsi su di un principio molto più vasto.
Quello per cui protestavano i minatori sudafricani è del tutto simile alle rivendicazioni dei lavoratori di mezzo mondo. Richiesta di aumento del salario, migliori condizioni del lavoro e la paura (annunciata) di perdere anche quel poco che guadagnano.
Perdere quel lavoro significa fare quel salto - mai attuale anche dalle nostre parti - tra una vita dignitosa di stenti e la povertà.
La risposta del datore di lavoro è analoga lì come altrove. La crisi. La crisi mondiale che investe soprattutto la classe media, riduce i consumi (stando alla tesi delle multinazionali) quindi bisogna ridurre i costi della produzione (spesso non la quantità della stessa).
Naturalmente i lavoratori - in Sudafrica come da noi - sottolineano come la forbice tra i ricchi e i poveri aumenti in modo vistoso. I manager delle nostre aziende che riducono la manodopera, così come quelli delle multinazionali dell'estrazione sudafricane, continuano a guadagnare, molto e sempre di più in relazione ai lavoratori. Mentre i lavoratori faticano a vivere.

La risposta della polizia (e quindi dei governi) è quella di reprimere le proteste dei lavoratori. I governi oramai sono retti, quasi ovunque dalla grande economia (quando non ne sono espressione diretta) capace di farli rimanere in sella o di farli saltare in qualsiasi momento. In luoghi ove la vita vale davvero poco, il passaggio tra le manganellate e i proiettili è purtroppo sottile. 

Così come è lieve il salto dalla protesta ferma, ma democratica e pacifica, e l'escalation della violenza (in Sudafrica nei giorni scorsi erano stati uccisi dai protestanti due vigilantes), soprattutto quando non si ha nulla da perdere (nel senso letterale, perchè nulla si ha).

Vale la pena sottolineare che per quanto sembri assurdo a molti, la situazione dei minatori sudafricani non è dissimile da molti lavoratori del nostro continente. Vi sono regolari contratti di lavoro (certo ancora lontani dai nostri standards) e dei sindacati forti e con una lunga tradizione. Nella maggior parte delle miniere estrattive dell'Africa (per fare un esempio nella Repubblica Democratica del Congo, ma anche in Niger o in Zambia) i lavoratori entrano e escono senza che nessuno sappia neppure il loro nome.

In questo senso l'episodio del Sudafrica deve essere un monito per tutti. 



martedì 14 agosto 2012

Il turismo che uccide

Foto dal sito Avaaz
E' in corso una campagna internazionale (www.avaaz.org) per difendere il Parco Nazionale del Serengeti in Tanzania e la popolazione che in esso vive, i Masai
Una grande multinazionale del turismo - la Otterio Business Corporation, legata alla famiglia reale degli Emirati Arabi Uniti,  è in procinto di acquistare un' altra fetta consistente del Parco per farne una riserva di caccia (avete capito bene, un luogo dove si fa caccia grossa e si spara a leoni e altri animali straordinari, molti a rischio di estinzione) per i ricchi del Medio Oriente. Questa operazione  rischia di far sgombrare circa 50 mila Masai dalle loro terre natie.
Dal sito di Avaaz è possibile informarsi e firmare una petizione. Naturalmente vi invito a diffondere la notizia. Parlarne - molto e oltre gli spazi, pochi , che i media danno - è il primo passo da fare.


Non è la prima volta che succede. Continuerà, purtroppo, a succedere anche nel futuro. I nostri divertimenti, le nostre passioni e i nostri amori possono diventare armi micidiali che colpiscono intere popolazioni. I viaggi in luoghi esotici del pianeta sono sempre più alla portata di tutti (meglio, alla portata di chi dispone di una quantità di denaro sufficiente), e giungere nel deserto del Kalahari o nella valle dell'Omo  (per rimanere nella sola Africa) è diventato facile quanto camminare nel centro di Londra o di Pechino.
Le agenzie turistiche che si occupano di viaggi nei luoghi remoti del pianeta nascono come funghi. Alcune hanno un grande rispetto per i luoghi e per le popolazioni che in essi vi vivono, altre sono al servizio dei clienti e cercano di esaudire qualsiasi loro desiderio (anche quelli illeciti) rischiando spesso di arrecare danni irreparabili e, altre ancora pensano che con il denaro tutto si può comprare, la vita prima di tutto.
Oggi nella rete girano migliaia di foto e di filmati che raccontano di viaggi nei luoghi più incontaminati e con le popolazioni più riservate e protette del pianeta. Se poi le donne sono belle e svestite o con un piattino sulle labbra ancora meglio (provate a cercare nella rete le parole himba o mursi ad esempio). E' chiaro che qualsiasi rapporto con popolazioni che ancora vivono in una dimensione rurale e isolata, rappresenta per esse un'opportunità e un pericolo. Alcuni di questi gruppi hanno adattato la loro indole e la loro cultura al turismo, in una relazione non sempre semplice. L'economia di alcuni villaggi si è trasformata da quella di sussistenza legata all'autosufficienza della loro produzione, ad un'economia legata al turismo e alle visite che gruppi dal mondo intero fanno presso di loro. Come sempre accade, queste trasformazioni hanno dei grandi vantaggi e creano degli enormi problemi. 

Il delicato equilibrio africano, che permette di convivere, a stretto contatto, popoli che vivono in una situazione quanto oggi più simile ai primi uomini sulla terra e una modernità che nulla ha da invidiare al nostro mondo ricco, deve essere tutelato. E' una ricchezza per il pianeta, è un patrimonio dell'intera umanità.

Certo il turismo di massa è l'ultimo degli attacchi al continente. La tratta degli schiavi, il colonialismo, lo sfruttamento delle risorse, il debito estero, la guerra fredda, il neo-colonialismo economico, lo sfruttamento idrico, la corruzione e il land-grabbing, hanno spianato la strada e hanno reso le cose più facili. Alcuni uomini neri, la loro ingordigia e l'amore per il denaro e il potere, hanno poi fatto il resto.

Oggi difendere le popolazioni locali dagli attacchi che giungono da più parti è un imperativo per chi crede nella giustizia e in un mondo più sostenibile.

Ne sanno qualcosa organizzazioni come Survival International  che da decenni si occupano di questi temi. Che combattono a fianco - spesso con successo - di piccoli gruppi etnici contro i grandi sfruttatori del pianeta. Anche per i Masai Survival da anni denuncia l'invasione delle grandi agenzie di turismo.



venerdì 10 agosto 2012

Il keniano Rudisha, su tutti

Foto Ansa
Straripante David Rudisha ieri negli 800 metri piani olimpici. Il figlio d'arte keniano (il padre aveva vinto l'argento a Città del Messico nel 1968 nella staffetta 4x400) ha corso il più veloce 800 metri della storia, chiudendo con il nuovo record del mondo (1'40"91) il doppio giro di pista. Una gara che lo ha visto protagonista (ed in testa) fin dai primi metri e che ha dimostrato tutta la sua supremazia. 
Gli 800 metri sono una gara di confine tra la velocità e il fondo. Si corre troppo forte per essere adatto ai fondisti e relativamente troppo lentamente per i velocisti. Gli 800 metri sono stati dominati, fino agli anni '80, dagli atleti bianchi. In particolare negli anni '70 e '80 furono tre grandi personaggi a dominare la scena: l'italiano  Marcello Fiasconaro, che stabilì il record del mondo nel 1973,  il cubano Alberto Juantorena, che detenne il record del mondo dal 1976 al 1979 e dall'inglese Sebastian Coe, che dopo aver strappato il record a Juantorena nel 1979, nel 1981 seppe correre, in una tiepida sera di giugno a Firenze, in 1'41"73, tempo che rimase record del mondo fino al 1997.

Foto dalla rete
Nel 1997 entrò in scena un keniano, Wilson Kipteker (poi diventato danese di adozione) che dopo aver ritoccato tre volte il record di Sebastian Coe, dominò la scena degli 800 metri e segnò una linea di confine. Da allora, gli atleti neri prevalgono in questa distanza.
I records di Kipketer durarono fino al 2010, quando un'altro keniano, David Lekuta Rudisha, lo abbassò ulteriormente (ieri è stato il suo terzo record del mondo).

dalla rete
Forse a molti non è passato inosservato il servizio andato in onda sulla Rai - poco dopo la vittoria di Rudisha - in cui vi era un'intervista all'atleta keniano mentre si allenava, nel suo paese poco prima delle Olimpiadi.
David correva su di una pista in terra battuta (altro che costosi materiali sintetici da cui pare dipendono i successi di molti atleti), sorrideva assieme ad amici mentre la polvere si sollevava copiosamente, ed seguito da un gruppetto di ragazzini. Quando poi l'intervistatrice gli chiedeva un pronostico sulle Olimpiadi, David era comodamente seduto, in vestiti "civili", sull'erba. Quando semplicità e spontaneità sanno far rendere più che mille accortezze tecniche e di immagine.

Comunque la gara degli 800 metri di ieri ha fatto, purtroppo, passare in secondo piano la straordinaria prestazione Njiel Amos, giovane atleta del Botswana (ha 18 anni), che oltre a stabilire un tempo prestigioso 1"41"73 (guarda caso lo stesso tempo dello storico tempo del 1981 di Sebastian Coe) che rappresenta pur il terzo tempo assoluto di sempre, ha anche vinto la prima storica medaglia (di argento) per il Botswana alle Olimpiadi.


giovedì 9 agosto 2012

Leptis Magna

Dal blog Travelphotoblog.org
L'antica città di Leptis, sulla costa della Libia, 100 km a est di Tripoli, fu fondata dai fenici nel 1100 a.c., come avanposto commerciale. La sua posizione strategica, che favoriva l'arrivo dal mare grazie alla presenza di un fiume che, una volta deviato, consentì di scavare il porto, favorì la crescita di questa città. Fiorì sotto i Cartaginesi che ne fecero una potenza del Mediterraneo e nel corso della terza guerra punica (146 a.c.) fu conquistata dai Romani. I romani seppero farne uno straordinario centro commerciale e marittimo (aggiungendo l'aggettivo Magna), nonchè un luogo di culto e di cultura,  soprattutto durante il regno dell'imperatore Lucio Settimio Severo (che era nato proprio in questa città e che guidò Roma dal 193 al 211) quando la città contava oltre 100 mila abitanti. Durante il IV secolo la città fu gravemente danneggiata da un terrmoto. Nel V secolo la città fu conquistata dai Vandali e nel VI secolo dai bizantini che riuscirono a farla rifiorire. Nel 644 la città fu conquistata dagli arabi. Fu poi abitata fino al X secolo e definitivamente abbandonata. Solo nel XX secolo (intorno al 1920) gli archeologi italiani iniziarono gli scavi - la città era stata interamente coperta dalle dune di sabbia -  che portarono alla luce gran parte delle sue bellezze. Gli scavi sono continuati recentamente ad opera di archeologi inglesi e nel 1994 è stato aperto un nuovo Museo.

Uno stupendo teatro, un mercato del I secolo a.c., le Terme, l'Arco di Severo, il Nuovo Foro, un ippodromo, un anfiteatro e una basilica.

Ecco una ricostruzione di Leptis Magna, dal sito Temehu.com
Nel 1982 Leptis Magna è stata inserita tra i Patrimoni dell'Umanità dell'UNESCO, per la sua unicità e per il grande valore architettonico, urbanistico ed estetico.
Leptis Magna è senz'altro uno dei più interessanti (e belli) siti del Mediterraneo romano.
Durante i recenti scontri in Libia, l'UNESCO ha più volte richiamato le parti in conflitto sulla necessità di salvaguardare i Patrimoni dell'Umanità nel paese.

Un bel post, dal blog Le favole della botte, su Leptis Magna
Ecco una completa galleria fotografica su Leptis Magna

Vai alla pagina di Sancara sui Patrimoni dell'Umanità in Africa

martedì 7 agosto 2012

7 agosto 1998: gli attentati a Nairobi e Dar El Salam

foto dalla rete
La mattina di quel 7 agosto 1998 è ricordata da molti. Alle ore 10.45, quasi simultaneamente, due autobombe esplosero nelle ambasciate statunitensi a Dar El Salam e Nairobi. In particolare a Nairobi l'esplosione fu molto forte e fu udita distintamente a decine di chilometri di distanza. I morti furono 213 e i feriti 4000. A Dar el Salam, dove l'esplosione fu "più leggera", i morti accertati furono 11 e i feriti 85. L'obiettivo erano le ambasciate americane nella giornata e nell'ora che ricordavano l'arrivo (ottavo anniversario) delle truppe statunitensi in Arabia Saudita durante la prima guerra del Golfo (7 agosto 1990).
Dei complessivi 224 morti, le vittime statunitensi furono 12, di cui due agenti della CIA.

L'attentato, rivendicato e subito attribuito alla rete terroristica Al-Qaeda di Bin Laden, è ancora oggi considerato dagli americani il peggior attacco contro gli interessi degli Stati Uniti, dopo l'11 settembre. Secondo alcuni gli attentati segnarono il passaggio del gruppo terroristico di Bin Laden ad una nuova forma di lotta che colpiva direttamente gli americani e che culminerà nell'attentato alle Torri dell'11 settembre. Naturalmente la scelta di Nairobi ha anche delle diverse implicazioni, è infatti da quella città, fedele agli americani, che gli Stati Uniti (e non solo) hanno gestito molte delle crisi africane (Somalia, genocidio del Ruanda, questione Sudan-Sud Sudan) e sotto molti aspetti perfino molte questioni strategiche e segrete che riguardavano il Medio-Oriente e l'antiterrorismo. In realtà se l'obiettivo degli attentatori era la politica estera americana, a morire furono esclusivamente innocenti africani.

foto dalla rete
La risposta americana non si fece attendere. Il 20 agosto l'amministrazione Clinton lanciò alcuni missili da crociera Cruise diretti verso una base di addestramento in Afghanistan (con lo scopo dichiarato di uccidere Bin Laden) e verso la fabbrica di farmaci Al Shifa alla periferia di Khartoum in Sudan (da dove Bin Laden era stato "espulso" solo 2 anni prima). La distruzione della grande industria farmaceutica sudanese (costruita nel 1992 anche con materiali americani e che produceva il 50% del fabbisogno farmaceutico sudanese) fu dettata dal sospetto - mai verificato - che si producessero anche armi chimiche. In realtà questa scelta- molto criticata da ogni parte del mondo - fu solo una prova di forza che l'amministrazione Clinton volle intraprendere. Le Nazioni Unite, come spesso è accaduto, non ebbero alcun ruolo, se non una risoluzione di condanna per le bombe alle ambasciate (1189), ma nulla fu detto sulla distruzione della fabbrica di medicinali, che aggravò la già precaria situazione sanitaria del Sudan.

Gli Stati Uniti inserirono un ventina di persone nella lista dei sospetti (alcune furono subito imprigionate). Nel 2001 una sentenza condannò al carcere a vita alcuni dei colpevoli.Altri sono ancora oggi ricercati (come l'egiziano Saif al Adel), mentre molti sono morti.

Nel suo libro Guerra alla verità (Fazi, 2002), l'analista politico di origine bangladese, Nefeez Mosaddeq Ahmed, racconta di come nonostante alti funzionari americani segnalavano l'ambasciata di Nairobi come un edificio insicuro e a rischio e ne chiedessero l'aumento della sicurezza fin dal 1996, furono totalmente ignorati dal Dipartimento di Stato americano.

Vai alla pagina di Sancara sulle Date storiche per l'Africa

sabato 4 agosto 2012

Con l'atletica, arriva l'Africa nera

Dibaba alle premiazioni, dalla rete
Se il buon giorno si vede dal mattino, l'atletica leggera, iniziata ieri nel programma Olimpico di Londra, porterà bene all'Africa. Sono state assegnate solo le prime due medaglie d'oro dell'atletica leggera e nei 10.000 metri la tripletta africana è subito arrivata. In realtà delle sei africane iscritte (su 22 partenti), 5 sono giunte nei primi 5 posti e una si è ritirata!
La gara più lunga del fondo in pista, quella dei 10 mila metri femminili, è stata una lotta tra africane. Alla fine l'ha spuntata Tirunesh Dibaba, etiope di 27 anni, già vincitrice dei 5.000 e dei 10.000 a Pechino 2008 e bronzo nei 5.000 ad Atene 2004. La Dibaba diventa così la prima medaglia d'oro femminile africana di questa olimpiade (vedi post di Sancara sulle medaglie africane femminile alle Olimpiadi) e la prima donna etiope a raggiungere i tre ori Olimpici (e, non è finita).

La Dibaba ha lasciato dietro di se le prime due atlete che avevano vinto gli ultimi mondiali a Daeugu, le keniane Sally Kipyego (argento) e Vivian Cheruiyot (bronzo). Ad ordine inverso, Cheruiyot, Kipyego, assieme ad un'altra keniana Lanet Masai, avevo composto l'intero  podio dei 10.000 ai mondiali di Corea (Sancara ne aveva parlato in questo post).

dalla rete
Il dominio africano nel fondo sembra non avere rivali. I record mondiali maschili a partire dagli 800 metri e fino alla maratona (passando per tutte le misure intermedie e non praticate nei programmi ufficiali) sono detenuti da atleti africani.
In campo femminile i 5000 metri (tra l'altro il record mondiale è della stessa Dibaba) e a partire dai 15 chilometri su strada (sempre record della Dibaba) per finire ai 30 mila metri, sono tutti record di atlete africane.

La propensione a correre, forte e nel tempo, sembra essere una prerogativa africana. Ma, come abbiamo visto nei giorni scorsi, è lo sport africano, in genere a crescere. Ieri, lo straordinario nuotatore sudafricano Chad Le Clos ha vinto un grande argento nei 100 farfalla, dopo che solo pochi giorni fa aveva vinto l'oro nei 200.

venerdì 3 agosto 2012

L'armo sudafricano, una conquista

L'equipaggio del 4 senza pesi leggeri, dalla rete
La terza medaglia olimpica del Sudafrica, ottenuta ieri, ha il sapore di una conquista. In termini assoluti, con tre medaglie d'oro il Sudafrica eguaglia quanto già ottenuto ad Atlanta 1996 e a Anversa 1920, avvicinandosi al suo record storico di Stoccolma 1912.... ma erano altri altri tempi.
Questa terza medaglia ha un grande valore sportivo e sociale. E' la prima medaglia d'oro nel canottaggio di un paese africano (sempre il Sudafrica, nel 2004 ad Atene ottenne uno storico bronzo nel due di coppia). Ma quella ottenuta nel quattro senza pesi leggeri è anche il frutto del grande lavoro (ancora molto resta da fare) che è stato fatto il Sudafrica a soli venti anni dalla fine dell'apartheid. Un equipaggio composto da tre bianchi e un nero, ha avuto l'onore di innalzare al cielo il primo oro nel canottaggio del continente africano in un paese dove solo fino a due decenni fa, bianchi e neri non si sarebbero potuti sedere insieme nemmeno in autobus.

Ndlovu e Smith, dalla rete
Matthew Brittain, Sizwe Ndlovu, John Smith e James Thompson - questi sono i nomi dei quattro canottieri - rappresentano senz'altro il nuovo corso dello sport sudafricano (che in altre discipline come il calcio o  il rugby è già cominciato da tempo). La loro impresa (hanno battuto i mostri sacri britannici e lasciato al gradino più basso del podio la Danimarca, vincitrice delle due ultime olimpiadi) resterà negli annali dello sport e della disciplina del canottaggio.
Mi immagino un Nelson Mandela commosso per questa storica impresa. Quello per cui si è sempre battuto, anche contro le frange più estremiste nere, ovvero un Sudafrica multietnico lentamente (e faticosamente) si realizza. Lo sport, come spesso accade grazie ai suoi alti valori universali, contribuisce in maniera decisa a questo nuovo corso.