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Sono dovute intervenire le Nazioni Unite per chiedere a Stati Uniti e Europa, in particolare, di ridurre la quota di biocarburanti derivanti da alimenti. Infatti ad oggi sia gli Stati Uniti che l'Europa erogano maggiori sussidi per la produzione di biocarburanti (secondo il rapporto dell'IEA, l'Agenzia Internazionale per l'Energia, 20 miliardi di dollari nel solo 2009) che di cereali agricoli. In Europa l'obiettivo è il 10% nel 2020 (le Nazioni Unite chiedono di scendere al 5%), sebbene si era già annunciata la riduzione al 5%.
Il risultato di una politica che nelle intenzioni aveva una valenza ecologica ed ambientale, riducendo le emissioni di gas serra, si è trasformata in una sciagura per i Paesi più poveri del nostro pianeta. Infatti la produzione di biocarburanti richiede una grande quantità di terreni (e di acqua) che non sono disponibili nei paesi ricchi e che vengono acquistati (meglio, razziati) nei paesi in via di sviluppo. Questo fenomeno, noto come land grabbing, si traduce in una riduzione delle derrate alimentari (terreni agricoli vengono convertiti in terreni per la produzione di biocarburanti), nella distruzione di intere comunità locali e nell'uso indiscriminato delle acque (per produrre un litro di biodisel occorrono circa 4000 litri di acqua) e, in definitiva, nella riduzione della quantità di alimenti disponibili e nell'aumento del loro prezzo (già nel 2008 la Banca Mondiale - quindi non qualcuno di estraneo al disastro - incolpava la produzione dei biocarburanti del 75% degli aumenti del prezzo degli alimenti).
Ma, facciamo un piccolo passo indietro. Cosa sono i biocarburanti? Sono prodotti derivati dalle biomasse che si prestano ad essere usati per produrre energia termica e per l'autotrazione. Sono ricavati essenzialmente da due tipologie di prodotti: olii vegetali ottenuti piante oleaginose (colza, girasole, soia, palma o dalla non commestibile jatropha) e alcol etilico prodotto da colture zuccherine (canna da zucchero, mais, sorgo, frumento). Sono fonti di energia rinnovabili, contrariamente alle fonti fossili come il petrolio. I biocarburanti permettono di ridurre del 70% le emissioni di anidride carbonica e di altri gas che agiscono sull'effetto serra, di ridurre l'emissione di monossodo di carbonio e di eliminare l'emissione in atmosfera di sostanze nocive come lo zolfo o gli idrocarburi aromatici. Ma, la cosa che politicamente più interessa, è che i biocarburanti riducono la dipendenza dei paesi occidentali dal petrolio, il quale come è noto, viene estratto in paesi che stanno fuori dagli Stati Uniti e dall'Europa. La nuova frontiera dei biocarburanti sono le alghe.
Tutto bene? No, assolutamente. Perchè come giustamente (e molto tardivamente) richiamano le Nazioni Unite, un grande vantaggio per noi, si traduce in un saccheggio in altre parti del pianeta.
Infatti per ora le discussioni sui biocarburanti sono state tutte incentrate su questioni ambientali relative alle emissioni, sulla resa dei motori, sulle quote di miscelazione possibile con combustibili classici e sul rilancio dell'agricoltura europea (o americana), ignorando volutamente qualsiasi valutazione sulle questioni relative alla produzione delle piante da cui si ottengono i biocarburanti. L'ultimo rapporto disponibile dell'Agenzia Internazionale dell'Energia, quello del 2011, nelle oltre 30 pagine dedicate ai biocarburanti, non accenna minimamente a qualsiasi problema riguardante la produzione.
Produzione di biocarburanti (mil. ton.di petrolio eq) |
Infatti, al di là delle più o meno modeste produzioni nei nostri paesi (ecco il sito dei produttori italiani di biocarburanti), le multinazionali (la quasi totalità americane) hanno spostato le coltivazioni in paesi che dispongono di grande aree "incolte", di legislature più morbide e di governi corrotti. Hanno acquistato (spesso per la classica "pipa di tabacco") terre fertili soprattutto in Africa. Nell'ultimo rapporto di Oxfam International si parla di un'area complessiva vasta 7 volte l'Italia, di cui quasi il 70% adibita alla produzione di biocarburanti. Il risultato è stato quello di creare grandi produzioni di prodotti non alimentari in luoghi dove mangiare molte volte è difficile, di consumare quantità enormi di acqua, dove la siccità è una costante, di far crescere enormemente i costi delle derrate alimentari, dove il denaro non è di casa.
Oggi i paesi che producono, e utilizzano, maggiormente i biocarburanti sono gli Stati Uniti, il Brasile, il Canada, la Cina e l'India.
Da anni associazioni del mondo intero chiedono un'azione decisa delle agenzie internazionali e dei governi per bloccare l'accaparramento di terre che impoverisce paesi e popolazioni già molto colpite da problemi alimentari.Qualsiasi tentativo di moratoria sull'acquisto delle terre è stato bocciato dagli stessi organisimi che da una parte indicano le politiche ai governi in via di sviluppo e dall'altra finianziano i grandi investimenti fondiari.
Il fenomeno del land grabbing, come più volte sottolineato, non riguarda solo gli ultimi del pianeta. E' un sistema - messo in piedi dalle grandi multinazionali - che se non adeguatamente controllato e regolato rischia di affamare e distruggere intere popolazioni. E' impensabile che mentre qualcuno ricava enormi guadagni dalla produzione di biocarburanti, a poca distanza si investano milioni di euro per far fronte a povertà, carestie e siccità.
Ecco un articolo, datato 2011, di Jean Ziegler e Silv O'Neall sugli effetti negativi dei biocarburanti
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