Sono passati 6 mesi da quando l'Organizzazione Mondiale della Sanità decretò l'inizio della prima epidemia di Ebola (EVD - Ebola Virus Disease) che ha preoccupato il mondo. A partire dal 26 dicembre 2013, quando ad un bambino di due anni di un piccolo villaggio della Guinea fu diagnosticata la malattia, l'epidemia è cresciuta ed ha anche interessato, per la prima volta, personale sanitario e volontari non africani.
Fin dal 1976 (ovvero da quasi quaranta anni) Ebola colpisce periodicamente l'Africa, ma in questa occasione i numeri, l'estensione e la durata sono decisamente diverse.
I dati aggiornati al 20 settembre, parlano di 5864 casi confermati o probabili e di 2811 morti (ovvero il 47,9%).
In particolare la Liberia risulta il paese più colpito (3022 casi, con 1578 morti, 52,2% di mortalità), seguita dalla Sierra Leone (1813 casi, 593 morti, 32,7%) e dalla Guinea (1008 casi, 632 morti, 62,7%).
Vi sono poi 20 casi in Nigeria (8 morti) e un caso in Senegal.
In Senegal, negli ultimi 21 giorni (periodo massimo di incubazione), non vi sono stati segnalati nuovi casi e sembra quindi che si sia trattato di un caso sporadico.
I motivi per cui non si riesce a bloccare l'epidemia sono quasi esclusivamente da imputare alla fragilissima rete sanitaria africana. Un sistema, quello sanitario, che per ovvie ragioni (budget, carenza di medici e personale sanitario, assenza di strutture, mancanza di farmaci) non riesce ad organizzare una barriera, efficiente ed efficace, contro la diffusione di una malattia, che come già più volte sottolineato, non è certamente altamente contagiosa. Ad essa si associano altre questioni più tipicamente africane, come quelle relative all'alimentazione, ad una diffusa promiscuità nelle abitazioni, ad alcune usanze relative ai riti funebri e molte "mal-credenze".
Per capirci, un caso diagnosticato nel nostro paese, farebbe scattare una serie di misure atte ad isolare l'ammalato e a controllare (e se necessario isolare) tutte le persone venute a contatto con l'ammalato. Il risultato sarebbe un facile "spegnimento" del focolaio infettivo.
Perfino il tentativo messo in atto in Sierra Leone, ovvero quello di decretare 3 giorni di coprifuoco con l'impossibilità per tutti di uscire di casa, trova le sue giustificazioni dal collasso del sistema sanitario.
In paesi dove già la mortalità (soprattutto quella infantile) è molto alta, lo stress del sistema sanitario dovuto all'emergenza Ebola, finisce con incidere massicciamente (e negativamente) su tutte le patologie, anche quelle più comuni.
Le poche organizzazioni umanitarie, si trovano ad affrontare situazioni ai limiti (e molto oltre) del tollerabile e lamentano una generale assenza della comunità internazionale, la quale, per ora, è molto più attenta ad evitare che il virus possa sbarcare in Europa o in America, che ad intervenire sul campo.
Quel che è certo è che la "psicosi da contagio" è oramai diffusa e non aiutano alcune dichiarazioni o previsioni avventate ed allarmistiche. Ad esempio si continua a parlare di una mortalità "del 90%", quando i dati ufficiali parlano di una mortalità del 47,9% (che può essere ulteriormente ridotta con un precoce intervento e con cure adatte). Oppure si stimano 1,4 milioni di casi entro gennaio (che equivale, ai dati attuali a circa 700 mila morti), semplicemente prolungando la curva dei casi alle stesse identiche condizioni attuali per 4 mesi. Certo se non si interviene questo pessimo scenario è possibile.
Fin dal 1976 (ovvero da quasi quaranta anni) Ebola colpisce periodicamente l'Africa, ma in questa occasione i numeri, l'estensione e la durata sono decisamente diverse.
I dati aggiornati al 20 settembre, parlano di 5864 casi confermati o probabili e di 2811 morti (ovvero il 47,9%).
In particolare la Liberia risulta il paese più colpito (3022 casi, con 1578 morti, 52,2% di mortalità), seguita dalla Sierra Leone (1813 casi, 593 morti, 32,7%) e dalla Guinea (1008 casi, 632 morti, 62,7%).
Vi sono poi 20 casi in Nigeria (8 morti) e un caso in Senegal.
In Senegal, negli ultimi 21 giorni (periodo massimo di incubazione), non vi sono stati segnalati nuovi casi e sembra quindi che si sia trattato di un caso sporadico.
I motivi per cui non si riesce a bloccare l'epidemia sono quasi esclusivamente da imputare alla fragilissima rete sanitaria africana. Un sistema, quello sanitario, che per ovvie ragioni (budget, carenza di medici e personale sanitario, assenza di strutture, mancanza di farmaci) non riesce ad organizzare una barriera, efficiente ed efficace, contro la diffusione di una malattia, che come già più volte sottolineato, non è certamente altamente contagiosa. Ad essa si associano altre questioni più tipicamente africane, come quelle relative all'alimentazione, ad una diffusa promiscuità nelle abitazioni, ad alcune usanze relative ai riti funebri e molte "mal-credenze".
Per capirci, un caso diagnosticato nel nostro paese, farebbe scattare una serie di misure atte ad isolare l'ammalato e a controllare (e se necessario isolare) tutte le persone venute a contatto con l'ammalato. Il risultato sarebbe un facile "spegnimento" del focolaio infettivo.
Perfino il tentativo messo in atto in Sierra Leone, ovvero quello di decretare 3 giorni di coprifuoco con l'impossibilità per tutti di uscire di casa, trova le sue giustificazioni dal collasso del sistema sanitario.
In paesi dove già la mortalità (soprattutto quella infantile) è molto alta, lo stress del sistema sanitario dovuto all'emergenza Ebola, finisce con incidere massicciamente (e negativamente) su tutte le patologie, anche quelle più comuni.
Le poche organizzazioni umanitarie, si trovano ad affrontare situazioni ai limiti (e molto oltre) del tollerabile e lamentano una generale assenza della comunità internazionale, la quale, per ora, è molto più attenta ad evitare che il virus possa sbarcare in Europa o in America, che ad intervenire sul campo.
Quel che è certo è che la "psicosi da contagio" è oramai diffusa e non aiutano alcune dichiarazioni o previsioni avventate ed allarmistiche. Ad esempio si continua a parlare di una mortalità "del 90%", quando i dati ufficiali parlano di una mortalità del 47,9% (che può essere ulteriormente ridotta con un precoce intervento e con cure adatte). Oppure si stimano 1,4 milioni di casi entro gennaio (che equivale, ai dati attuali a circa 700 mila morti), semplicemente prolungando la curva dei casi alle stesse identiche condizioni attuali per 4 mesi. Certo se non si interviene questo pessimo scenario è possibile.