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mercoledì 25 novembre 2015

Giornata Mondiale contro la violenza sulle donne. Pensiamoci.

Le Nazioni Unite stimano che il 35% delle donne del mondo ha subito violenze, fisiche o sessuali, nel corso della propria esistenza. Un dato drammatico che deve farci riflettere tutti sui tanti mali del nostro mondo. Se poi i carnefici sono per oltre il 70% le persone più vicine alle donne (mariti, compagni e familiari) il quadro assume i tratti di una vera e propria emergenza.
La violenza degli uomini sulle donne ha antiche radici e sopravvive, seppur con molte eccezioni, negli ambienti in cui povertà, oppressione e scarsa educazione regnano sovrane. Come ebbe mondo di sottolineare negli anni '80 Thomas Sankara, che nella sua rivoluzione pose le donne al centro di ogni processo, "L'uomo, non importa quanto oppresso sia, ha un altro essere umano da opprimere, la moglie". La situazione è ancora, amaramente, molto simile.
A pagare di più sono le donne del Sud-Est asiatico (oltre 58%), dei paesi più ricchi (41,2%) dell'America del Nord (40,5%) e dell'Africa (40,1%).

La Giornata Mondiale di riflessione ed iniziative è stata istituita nel 1999 dalle Nazione Unite su pressione dei movimenti e delle associazioni delle donne, che hanno voluto ricordare il sacrificio delle sorelle domenicane Patria, Maria Argentina e Antonia Maria Mirabal, assassinate dal regime di Trujillo il 25 novembre 1960.

Le donne nel mondo pagano e hanno sempre pagato un tributo speciale. Da quando erano accusate di stregoneria, torturate e bruciate ad oggi in cui sono stuprate a migliaia durante i conflitti.  Discriminate nei loro diritti (salvo rarissime eccezioni), strette tra le responsabilità della famiglia e quella dei figli,  le donne sopportano, spesso da sole, il peso della povertà, della sussistenza e della sopravvivenza. Sono picchiate, sfruttate e stuprate, con modalità diverse, in ogni angolo del pianeta. 
Subiscono talvolta le sottili e subdole violenze degli uomini che giurano di amarle e altre volte veri e propri martiri dai potenti di turno.
Sono comprate, vendute e ammazzate. In molti luoghi senza che per loro vi sia alcuna giustizia.

Certo le giornate servono a riflettere, a comunicare emozioni ad intraprendere iniziative. Il lavoro però deve essere fatto, dai governi e dalle istituzioni, ogni giorno, ogni minuto. Un lavoro che parte dalla presenza delle donne nei posti di comando e di governo (ancora troppo poche - nel 2014 solo il 7% dei capi di stato o di governo erano donne e solo il 41% dei paesi del mondo era stato governato almeno un giorno da una donna), dal riconoscimento dei diritti, dalla lotta senza quartiere alla tratta di donne ai fini sessuali (tra cui quella nigeriana in testa), alla ferma condanna (con azioni di forza) dello stupro come arma di guerra e delle mutilazioni genitali femminili e alla prevenzione delle più subdole violenze domestiche.

Ma incidere sulle dinamiche che conducono alla violenza sulle donne significa anche sottolineare e far risaltare le imprese quotidiane delle donne nel mondo (sempre maggiori ed in ogni campo), perchè come ho avuto modo di sottolineare parlando del Ruanda, si ha l'impressione che dove gli uomini hanno fallito, sono le donne a prendere in mano la situazione!

 


venerdì 20 novembre 2015

Terrore senza confini

I fatti di Parigi hanno sconvolto l'opinione pubblica. Abbiamo assistito, quasi in diretta, ad ogni fase dell'attacco. Abbiamo avuto paura, abbiamo pianto. Abbiamo acceso candele e in molti si sono detti francesi, colorando i loro profili nei social network con il tricolore francese. Tutti abbiamo chiesto di fare qualcosa.
In poco tempo tutti si sono improvvisati strateghi ed esperti di un fenomeno così complesso che perfino chi lo fa di mestiere stenta a capire le dinamiche precise e soprattutto a trovare soluzioni o a prevenire gli atti che regolarmente avvengono nel mondo.
Abbiamo parlato - tutti improvvisamente competenti ed grandi conoscitori - di sciiti e sunniti, di integralismo, di armi, di peshmerga, di yazidi, di jihad e califfato alcuni dimostrando di avere soluzioni, semplici e immediate, per ogni problema. 
Abbiamo chiesto attacchi aerei, dichiarato guerra, chiuse le frontiere e abbiamo offeso l'islam.
Non importa che il giorno prima i terroristi - che si dichiarano dello stesso gruppo - abbiano colpito Beirut (37 morti, 181 feriti) facendosi esplodere davanti ad un santuario sciita o che qualche giorno dopo Boko Haram abbia colpito a Yola in Nigeria (32 morti, 80 feriti) o ancor prima abbia ucciso 42 persone in una moschea.
Oramai per tutti è una guerra dell'islam contro l'Europa o, ancor meglio, contro i cristiani.
Abbiamo soprattutto imparato che non tutti i morti sono uguali, i nostri valgono molto di più. E pensiamo di essere noi, europei, al centro di ogni attacco.

La realtà è ben diversa.

Il Global Terrorism Index (GTI) (un indice statistico creato dall'Università del Maryland che monitorizza tutti i casi di terrorismo nel mondo compilando una classifica per stato in base anche al numero di atti, alla quantità di morti e feriti oltre che di danni prodotti) ci dice che le 32.658 vittime del terrorismo (quasi raddoppiate rispetto al 2013 - nel 2000 erano 3329) nel 2014 si concentrano per l'80% in Afghanistan e Iraq (per puro caso due dei paesi in cui dovevamo esportare la democrazia), mentre il maggior numero di attacchi sono stati portati a termine da Boko Haram in Nigeria.

La classifica del GTI vede primeggiare in questa tristissima e orrenda classifica l'Iraq, l'Afghanistan, la Nigeria, il Pakistan, la Siria, l'India, lo Yemen, la Somalia, la Libia e la Thailandia. Paesi di aree, cultura e religioni diverse. Il primo paese europeo, il Regno Unito, si trova in 28° posizione.


Ma, quello che salta maggiormente agli occhi (e che dovrebbe farci riflettere tutti) è che il numero dei morti per terrorismo nel mondo subisce una rapida impennata dopo l'inizio della guerra civile siriana. Nemmeno gli attacchi dell'11 settembre e la successiva invasione dell'Afghanistan e poi dell'Iraq sono riusciti a determinare un simile effetto.
Appare evidente che la questione siriana (così come nel passato è stata quella palestinese) ha avuto una funzione importante nella geopolitica e nell'incremento del terrorismo. 

Ecco il Report completo del Global Terrorism Index

Ecco il sito del Global Terrorism Database, dove sono inseriti oltre 140 mila attacchi terroristici dal 1970 al 2014 in un database open-source.

mercoledì 11 novembre 2015

Burundi, facciamo attenzione

La storia ci ha insegnato che sottovalutare segnali importanti ci ha condotto spesso a piangere, dopo, morti che avremmo potuto evitare. E' ancora recente il ricordo di molti per quanto accadde in Ruanda solo vent'anni fa. Perfino durante i giorni più caldi, quando le teste rotolavanoo per strada, quando i macete amputavano le mani, quando gli stupri erano il gioco di molti e quando qualcuno incitava all'odio, pochi furono in grado di pronunciare quella parola che fa orrore: genocidio. Eppure oggi tutti sappiamo.
Poco distante da quei luoghi, in Burundi, la tensione cresce di giorno in giorno, mentre sembra quasi fastidioso parlare e mostrare quel che accade.

L'escalation è iniziata ad aprile scorso quando il Presidente, il pastore Pierre Nkurunziza aveva annunciato la volontà di candidarsi per il terzo mandato, nonostante la Costituzione lo impedisse (Sancara aveva già scritto in questo post in quell'occasione e poi un altro nel settembre scorso). A luglio, Nkuranziza è stato rieletto in elezioni ritenute farsa e i disordini si sono moltiplicati.
La tensione cresce di ora in ora e mentre il Presidente chiede alle forze speciali di "usare ogni mezzo per garantire la sicurezza" e concede ultimatum alle opposizioni che lo contestano, non mancano le forze politiche che soffiano, pericololamente, sull''odio etnico.
Inutile ricordare che solo un decennio fa, tra il 1996 e il 2006, la guerra civile in Burundi fece oltre 300 mila morti. 
A Bujumbura, la capitale del piccolo paese, oramai è guerra aperta. Come testimonia Fulvio Beltrami sull'Indro, giornalista dall'Uganda, uno dei primi e poi dei pochi, a parlare del Burundi, la situazione è caotica ed incerta.
Ma i segnali più evidenti, e preoccupanti, sono gli appelli alla carneficina o meglio al grido Kora Kora (andiamo a lavorare) che ricordano molto da vicino gli appelli a "schiacciare gli scarafaggi" che avevano accompagnato il genocidio ruandese. Oppure la negazione evidente di alcuni quotidiani locali che minimizzano i fatti, dando dei visionari a chi invita alla calma. Così come appaiono preoccupanti le sostituzioni dei vertici militari con uomini fidati e di sicura fede o, ancora, la distribuzione, sottobanco, di armi ai civili.

Insomma, siamo onesti, i segnali di qualcosa che rischia di rompersi sono tutti evidenti. Le Nazioni Unite, memori del fallimento nella crisi ruandese, hanno già convocato un consiglio di sicurezza e nominato un mediatore (il presidente ugandese Musuveni), mentre da giorni la gente ha iniziato a scappare dal Paese. Come spesso accade sono i civili, soprattutto donne e bambini, ad essere i primi  colpiti da queste crisi umanitarie. I primi profughi hanno già varcato i confini e vanno ad ammassarsi in quella complessa situazione dei rifugiati che da decenni contribuisce a creare instabilità nella regione dei Grandi Laghi.

Teniamo accesi i riflettori, perchè solo nel buio le azioni più ignobili possono prevalere.
 

sabato 7 novembre 2015

Popoli d'Africa: Kavango

I Kavango sono un gruppo etnico della Namibia settentrionale, nell'omonima regione al confine con l'Angola, di cui rappresentano la seconda etnia (circa il 9,3%) dopo gli Ovambo (con cui sono strettamente correlati) e prima degli Herero. Alcuni piccoli gruppi vivono anche in Angola e Botswana. Secondo le più recenti stime sono circa 200 mila individui che vivono prevalentemente lungo il fiume omonimo. Sono infatti degli ottimi pescatori (utilizzano cesti per la pesca), oltre che allevatori, eccellenti cacciatori e piccoli agricoltori, soprattutto di miglio (mahangu) e sorgo. Sono anche degli ottimi scultori del legno (maschere, statue, cesti e strumenti musicali). Sono tradizionalmente divisi in cinque regni (Kwangari, Mbundza, Shambyu, Gciriku e Mbukushu) che si dividono in modo molto netto il territorio della regione Kavango ed ognuno è guidato da un capo (re) chiamato hompafumo. La struttura sociale matrilineare e le leggi Kavango sono tutelate dalla Costituzione della Namibia. Parlano una serie di lingue, diverse nei regni, del ceppo bantu. Solo una di esse è scritta. Oggi sono prevalentemente cristiani sebbene coesistono credenze tradizionali legale all'esistenza di un essere supremo chiamato Nyambi (condiviso con il popolo Ovambo), i cui riti sono rispettati e praticati anche dai cristiani.
I Kavango sono originari dell'Angola, da cui sono scesi a partire dal XVIII secolo (e in questa migrazione entrarono in conflitto con i boscimani San che occupavano già il territorio) per poi superare definitivamente i confini durante la guerra civile angolana.
Oggi i giovani Kavango tendono a migrare nelle città per studiare - sebbene per ora in forma ridotta rispetto ai loro vicini Ovambo - oppure verso l'Angola dove la crescente economia richiama forza lavoro.
Tra i punti centrali della cultura Kavango vi è il concetto di Ekoro, ovvero di una particolare relazione sociale (traducibile in famiglia estesa) che si verifica all'interno dei clan, ma non è determinata necessariamente da legami di sangue. 
L'Ekoro rappresenta un legame forte che comporta una lato livello di rispetto ed obbedienza verso gli anziani (non necessariamente in senso anagrafico).

Posto il link di uno dei più approfonditi lavori sul popolo Kavango, opera, datata 1981, a cura di Gordon Gibson, Thomas Larson e Cecile McGurk. E' il frutto di un lavoro di ricerca ed osservazione iniziato agli inizi del secolo scorso e che è stato in grado di raccontare, nei particolari, le relazioni sociali di questo popolo.

Questo lavoro (di John Mendelsohn) invece si occupa dell'ambiente (in particolare dell'uso del territorio) nella regione del Kavango e offre molti spunti sul popolo che vi abita - è recente (febbraio 2009)

Ecco un link dove è possibile vedere (e acquistare) cesti Kavango


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