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mercoledì 23 dicembre 2015

Giustizia per Thomas Sankara

Una notizia, che alcuni aspettavano da tempo, è giunta dal Burkina Faso. Una notizia che non molti mezzi d'informazione riporteranno. A quasi 30 anni dall'omicidio di Thomas Sankara, le autorità burkinabè (la Corte militare, in verità) hanno emesso un mandato di cattura internazionale per l'ex presidente Blaise Campaorè. Si tratta di una svolta fondamentale per coloro i quali, da tempo, chiedono giustizia per chi complottò, da dentro, contro il governo rivoluzionario di Sankara. Campaorè ha guidato il Burkina Faso da quel terribile 15 ottobre 1987, quando Sankara e 12 altre persone del governo morirono sotto i colpi di mitra, fino allo scorso ottobre quando è stato destituito da una sollevazione popolare. Oggi vive, protetto, in Costa d'Avorio. Tra gli incriminati per il delitto di Thomas Sankara anche il generale Gilbert Dienderè, fidato braccio destro dell'ex-presidente, che proprio lo scorso settembre ha tentato un colpo di stato, probabilmente per scongiurare la ricerca della verità. Per tutti questi anni in cui Campaorè ha guidato il Burkina Faso non è stato mai possibile investigare sulla morte di Sankara. Una sorta di velo aveva tenuto nascosto la verità.
Inchiodare i responsabili alle loro colpe non è solo un fatto di giustizia (comunque necessario) ma è un modo per riscrivere la storia di quel periodo e ridare forza alle idee di Sankara, che non sono mai state dimenticate.
Giungere alla verità significa anche fare chiarezza sulle responsabilità che sono in capo alle potenze straniere, Francia in testa, che hanno guidato e determinato gli eventi in quella e in molte altre circostanze.

Per un blog come Sancara, che si ispira - con molta umiltà - alla storia e alle idee di quest'Uomo straordinario, la notizia dell'apertura delle indagini riempie di gioia. A molti può apparire un fatto marginale, in un paese come l'Ex Alto Volta (che proprio Sankara denominò Burkina Faso) che nello scacchiere mondiale conta poco, veramente poco. In realtà si tratta di far luce su di un periodo storico e di comprendere, oltre i sospetti, chi furono i protagonisti di quell'assassinio. Perchè Sankara non fu ucciso per quello che stava facendo nel suo, "insignificante", Paese ma, per le sue idee che rischiavano di contagiare l'intero continente. Conoscere in che modo e con quali alleanze le grandi potenze hanno determinato il corso della storia in Africa, aiuta a comprendere maggiormente le ragioni del presente.


 
 

venerdì 18 dicembre 2015

L'Africa dell'Ovest e il velo islamico

I quindici paesi della Comunità Economica degli Stati dell'Africa dell'Ovest (CEDEAO nell'acronimo francese o ECOWAS in quello inglese) ha adottato una risoluzione che impegna gli stati membri (15) a "vietare tutti i vestiti che rendano impossibile l'identificazione di una persona". Una formula che pur non facendo riferimento a qualcosa in particolare punta il dito sul niqab, il velo islamico che tiene scoperti solo gli occhi. Il tema era già stato affrontato, in modo autonomo, da alcuni dei paesi del Cedeao. Ad esempio il Niger aveva già preso questa misura nel luglio scorso a seguito di alcuni attentati.
Il Niqab è uno dei veli indossati dalle donne islamiche nel mondo. Pur essendo caratteristico della Penisola Araba (Arabia e Yemen in particolare), si è diffuso prima in Egitto e poi in molti paesi africani. Ha origini pre-islamiche (vi sono rilievi risalenti al I secolo) ed è composto generalmente da due veli uno per la fronte e uno per il viso.
La questione, naturalmente è complessa.
Inutile nascondersi dietro un dito. Il terrorismo estremista ha usato veli integrali e vestiti coprenti per svolgere le sue scellerate azioni. Spesso - quasi sempre - dietro a quei veli si nascondevano uomini. Da queste osservazioni è nata la necessità di proibire l'uso di indumenti che impediscono l'identificazione delle persone.
In Africa Occidentale, da sempre contenitore di un islam moderato e dialogante, alcune comunità religiose si sono dichiarate disposte ad accettare queste imposizioni se il vantaggio sarà una maggiore sicurezza per le persone. Inutile sottolinearlo, ma solo con l'appoggio e la condivisone delle componenti islamiche, questi provvedimenti possono avere successo e non rischiano di essere controproducenti.
La questione del velo - in genere - è delicata. Perfino le associazioni femministe di donne mussulmane sottolineano come "il velo non è uno strumento culturale, politico o ideologico, che rappresenta la sottomissione agli uomini, ma una convinzione personale legata alla fede". Di conseguenza sono molto restie a "presunte emancipazioni, spesso di facciata" dettate per decreto, restando molto più legate alla lotta alla reale emancipazione, quella che porta le donne a contare e ad essere protagoniste delle scelte, anche politiche, nei paesi di cultura islamica.
Quando si affrontano questi temi bisogna essere cauti, perchè ogni forzatura rischia di alimentare il fuoco di chi oggi, per motivi ben diversi da quelli religiosi, ha tutti gli interessi ad inasprire gli animi, a generare panico e a creare divisioni.
Naturalmente l'essere cauti non significa accettare tutto. Quindi ben vengano provvedimenti di questo tenore, condivisi da più Stati, che favoriscono il riconoscimento delle persone, ma che non entrano nel merito di questioni religiose o di primogenia di una cultura su di un'altra. 



giovedì 17 dicembre 2015

A spasso tra i numeri 2: l'economia

Dopo il post sulla popolazione proviamo a vedere, semplicemente e con sempre gli occhi all'Africa, la situazione economica del nostro pianeta. Un piccolo viaggio tra i numeri. Tra le grandi economie del mondo, la cui classifica è guidata da Stati Uniti, Cina e Giappone, l'Africa fa timidamente capolino. Al 25° posto infatti, con un PIL stimato di 522 miliardi di dollari vi è la Nigeria (la cui economia dipendende quasi esclusivamente dal petrolio), che si pone tra Belgio e Norvegia. Oltre la trentesima posizione il Sudafrica (366 miliardi di dollari) e oltre la quarantesima l'Egitto (272 miliardi di dollari). Del resto il mondo è molto diviso: se il PIL dei paesi indutrializzati raggiunge oltre 47 mila miliardi di dollari nel 2014, in Africa Subsahariana il PIL si assesta a 1670 miliardi di dollari. Un abisso.
Purtroppo per i paesi africani la ricaduta reale sulla popolazione è molto molto blanda.  
L'indicatore economico più diffuso è il PIL pro capite, gli ultimi 24 posti nel mondo sono occupati da paesi africani, dalla Somalia che viaggia a 133 dollari pro capite al Benin che raggiunge gi 805 dollari.
Lasciando perdere i valori elevatissimi di minuscoli stati europei (Monaco, Liechtenstein e Lussemburgo) che superano i 110 mila dollari pro capite, a guidare la classifica è la Norvegia (110.898 dollari pro capite, circa 1000 volte il PIL pro capite della Somalia), seguita da Qatar (93 mila), Svizzera (84 mila) e Australia (67 mila). L'Italia sii colloca in 34° posizione con 35 mila dollari.
Per trovare un paese africano bisogna scendere alla 54° posizione, dove troviamo la Guinea Equatoriale con circa 20 mila dollari. 
Analizzando il coefficiente di Gini  (ovvero l'indice che misura la maggiore equidistribuzione del reddito all'interno del paese - 0 è totalmente distribuito, 100 è il massimo della concentrazione del reddito) scopriamo che la peggior distrubuzione del reddito (già basso) avviene in generale in Africa (Namibia al primo posto con un coefficiente di 63,9, Sudafrica, Zambia) e in Sud America. Di contro la miglior equa distribuzione del reddito si osserva nei paesi nordici europei (Svezia coefficiente 25, Norvegia, Finlandia) e in genere in Europa.
Infine, gli ultimi 17 posti dell'Indice di Sviluppo Umano, un indicatore non solo economico, vi sono esclusivamente paesi del continente africano (Niger, Repubblica Democratica del Congo, Centrafrica e Ciad in testa) mentre ai vertici, ovvero i paesi più svuluppati del mondo, ci sono Norvegia, Autralia e Svizzera. In questa classifica (riferita al 2013), il primo paese africano era la Libia al 55° posto, mentre l'Italia era collocata al 26° posto.
Insomma, da qualsiasi lato si guardi la questione (ovvero con qualsiasi indicatore) il mondo è fortemente polarizzato tra un nord sempre più ricco e sviluppato e un sud sempre, nonostante gli enormi afflussi di aiuti, più povero e "poco sviluppato".

Qualche timido segnale di controtendenza sembra esserci osservando il trend dei tassi di crescita economica nel mondo. Se osserviamo il periodo 2003-2013, tra i primi dieci paesi del mondo in cui il PIL è cresciuto mediamente di più troviamo due paesi africani: l'Etiopia e l'Angola (con oltre il 10% annuo) ma, sono molto alte le performance anche di Ruanda e Zambia (al 7,8%) o della Nigeria (7,6%). Viceversa tra i paesi a crescita negativa, oltre alla Repubblica Centroafricana (-1,6%), troviamo paesi dell'area europea come Grecia (-1,6%), Italia (-0,5%) e Portogallo (-0,2%). Certo è più facile crescere molto partendo dal basso.

Oltre al Sudafrica, già dal 2010 inserito tra le economie emergenti del paese (assieme a Brasile, alla Russia, all'India e alla Cina) riunite nell'associzione BRICS (acronimo che altro non è che le iniziali dei singoli paesi), gli analisti prevedono che un'altro paese africano, la Repubblica Democratica del Congo è destinato - a patto che sappia affrontare le croniche crisi interne - a scalare le classifiche ed ad entrare tra le economie emergenti in un prossimo futuro (assieme al Messico, l'Indonesia, la Turchia e il Kazakistan).
Gli stessi esperti sostengono che il freno africano allo sviluppo è la produzione industriale. Ancor oggi infatti è la Nigeria, ben oltre la trentesima posizione mondiale, a guidare la classifica della produzione industriale capeggiata da Cina, Stati Uniti, Giappone, Germania e Russia.
Se però osserviamo la crescita della produzione industriale tra il 2005 e il 2013, vediamo che sono i paesi africani (Liberia + 24%, Etiopia +13,5%, Ghana +11%, Ruanda +10%)  a guidare e occupare ben 11 tra i primi 20 posti nel mondo.
Di contro è la produzione industriale di una parte importante dell'Europa (Grecia, Spagna, Italia, Irlanda, Portogallo, Danimarca, Regno Unito, Norvegia e Finlandia) ad avere il segno negativo davanti.
Sembra evidente che la svolta possa essere data solo dal fatto che uscendo dal ciclo degli aiuti e dell'assistenza (gestito da chi aveva altri interessi) l'Africa possa autodeterminare il proprio futuro e sfruttare direttamente le immense risorse che possiede. 
 

giovedì 10 dicembre 2015

A spasso tra i numeri: la popolazione

Ho sempre avuto una passione per i numeri e per le statistiche. A volte conoscerli aiuta a passare da un pensiero "per sentito dire" ad uno "più realistico e corrispondente alla realta". I due pensieri spesso sono antitetici tra loro. Questo non significa che le statistiche (i numeri) non possono essere interpretate, soggette al pensiero di chi le scrive e perfino manipolate. Resta però il fatto, che almeno possono essere messe in discussione e comparate con altre fonti. Purtroppo la velocità delle comunicazioni e la voglia (legittima) di ognuno di dire la propria porta a non verificare sempre le fonti e a imbucarsi in tortuose avventure per giustificare le proprie idee. Un esempio concreto è quanto avviene di questi tempi sulle migrazioni e sui rifugiati. Per la maggior parte delle persone siamo di fronte ad una biblica fuga dal sud verso nord del pianeta (e l'Europa in particolare), di persone che scappano dalle guerre. Le drammatiche immagini, i resoconti e le statistiche che si riportano (sapientemente selezionate) fanno pensare che l'Europa sia il punto in cui si concentrano la maggioranza dei profughi del mondo. Niente di più falso! I numeri, quelli veri, ci dicono, come è ovvio pensare, che la maggioranza dei profughi vive nei paesi del sud del mondo e spesso appena oltre i confini del proprio paese.

Spinto da queste riflessioni e da molte altre, approfittando della recente uscita del librettino curato da The Economist e Internazionale, Il Mondo in cifre 2016, ho scritto alcuni post che traendo lo spunto da alcuni numeri, permettono di fare qualche riflessione, sempre con l'attenzione rivolta all'Africa. Un modo per aiutarci a comprendere la realtà e le sue molte, e complesse, sfaccettature.

Ho pensato di cominciare a vedere,a grandi linee, chi sono e dove sono gli abitanti del nostro mondo.

Oggi gli abitanti del pianeta (poco oltre i 7 miliardi) si distribuiscono in modo tutt'altro che uniforme. Un terzo dell'umanità vive in due paesi, la Cina e l'India. In Asia inoltre abitano il 60% degli abitanti del pianeta, il 15% in Africa e solo il 10% in Europa. Il primo paese africano per numero di abitanti è la Nigeria, che si colloca al 7° posto, con 174 milioni di persone. Le previsioni (quindi ipotesi da verificare) per il futuro (2050) oltre a generare il sorpasso dell'India sulla Cina, porterà la Nigeria ad essere il terzo paese più popoloso al mondo, con 440 milioni di persone previste. Trascurare oggi quello che accade in Nigeria (e non è poco) non è molto saggio. Ma, l'umanità in percentuale crescerà solo in Africa, che nel 2050 potrà contare del 20% degli abitanti del pianeta, quando l'Europa toccherà quota 7%.

Del resto se guardiamo alla rapidità della crescita demografica. i primi 15 paesi nel mondo sono nel continente africano, guidati dal Niger (3,9%), mali, Uganda e Zambia (3,2%). Di contro a paesi che non crescono o crescono poco sono soprattutto nell'Europa dell'Est e nelle ex-Repubbliche Sovietiche (la Bulgaria guida questa classifica con un dato negativo di 0,8%).
Questo avviene perchè sono africani i primi 25 paesi con il più alto tasso di natalità, con in testa Niger (50 nascite su 1000 abitanti) e il Ciad (48 su 1000). Per fare un raffronto con i paesi Europei, tra quelli con la più bassa natalità, la Germania ha un tasso di natalità di 8 su 1000. 
Il tasso di fecondità (il numero di figli per donna) vede in testa venti paesi africani, con il Niger a 7,6 e il Sud Sudan a 7. Di contro in Europa, nei paesi dell'Est e nell'Asia "ricca" il tasso oscilla tra 1,1 e 1,4 figli per donna.
Naturalmente i bambini in Africa muoiono molto di più. Per noi europei la morte di un bambino è un fatto raro, drammatico e spesso inspiegabile. Il tasso di mortalità infantile (bambini di meno di 5 anni morti per ogni 1000 nati vivi) nonostante alcuni indubbi miglioramenti resta altissimo (107 in Sierra Leone, 102 in Repubblica Democratica del Congo e 89 in Angola). I primi 21 posti sono occupati da paesi africani. Tanto per capirci in Islanda il tasso di mortalità infantile è 1,6, mentre in Italia è 2,3!
Nascere e sopravvivere dopo i 5 anni, in molti paesi africani è ancora un'impresa. Poi, bisogna rimanere vivi. La speranza di vita è di 46,8 anni in Sierra Leone, 48,7 in Swaziland e poco oltre i 50 anni in Lesotho e Botswana. Sono ben 33 i paesi africani che occupano i primi posti di questa non invidiabile classifica.
Di contro in Europa e nell'Asia "ricca", la speranza di vita è quasi doppia (84,3 in Giappone, 83 in Svizzera e in Italia).

La popolazione si sposta sempre più in aree urbane. In alcuni paesi le città si ingrandiscono al ritmo del 5, 6 e perfino 8% all'anno. Ormai alcune città hanno assunto le "dimensioni umane" non di piccoli stati, ma di medie entità statali. Tokyo con circa 38 milioni di abitanti ha superato la popolazione del Canada e si attesta intorno a quella della Polonia o dell'Algeria. Dopo Tokyo la città odierna più popolosa è Delhi, con 25,7 milioni di abitanti (quando il Ghana e più della Romania), seguita da Shanghai con 23,7 milioni (come l'Australia). Tra le grandi città del mondo troviamo alcune città africane come Il Cairo (18,8 milioni, 9° città più popolosa), Lagos (13,1 milioni, 17°) e Kinshasa (11,6 milioni, 23°). 
Vivere nelle città non è però assolutamente facile e soprattutto non tutte le città sono uguali. Vi è un indicatore, chiamato Indice di Vivibilità (mette insieme parametri relativi alla stabilità politica, alla sanità, alla cultura, all'istruzione e alle infrastrutture) che raffronta in una scala 100 (tra ideale e intollerabile) il vivere nelle città.
Se nella scala alta si trovano città Australiane, Canadesi e qualche Europea (Melburne, Vienna, Vancouver, Toronto e Adelaide, le prime cinque), nelle zone basse ci sono le grandi metropoli asiatiche e africane (Damasco, Dhaka, Lagos, Algeri, Karachi, Harare, Douala, Tripoli e Abidjan nell'ordine).

Se ci fermassimo solo a questi semplici dati (quelli di cui parleremo nei prossimi post vanno comunque nella stessa direzione), verrebbe spontanea una semplice considerazione. Se, chiunque di noi, si trovasse a nascere in un paese dove ha molte probabilità di morire prima dei 5 anni, consapevole che vivrà mediamente 50 anni, che se è donna dovrà partorire almeno 5-6 figli (e non abbiamo parlato dei diversi rischi del parto), nella speranza di vederne crescere qualcuno e fosse condannato a vivere in città dove è intollerabile la vita, e scoprisse che poco più in là, ci sono altri esseri umani che vivono meglio, di più e più sicuri, come ci comporteremmo? Poi sempre in quei luoghi, scoppiano le guerre.

L'Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati dice che dei 59,5 milioni di rifugiati nel mondo (19, 5 milioni fuori dal paese, 38,2 milioni interni e 1,8 milioni richiedenti asilo) l'86% vive nei paesi poveri (spesso vicino da dove scappano nella speranza di rientrare un giorno). Solo nel 2014 sono scoppiati 15 conflitti nel mondo (8 in Africa, 3 in Medio Oriente, uno in Europa dell'Est e tre in Asia. A questi vanno aggiunti i conflitti del recente passato (sono stati meno di 130 mila i rientri nei paesi), le situazioni di estrema instabilità politica e quelle situazioni croniche e spesso dimenticate (Palestina, Sahara Occidentale e Darfur, per citare le più note). I Paesi con maggior numero di profughi ospitati sono il Libano, la Giordania, l'Etiopia, il Pakistan, la Turchia, l'Iran e il Kenya.


 

mercoledì 9 dicembre 2015

Isola di Mozambico

L'Ilha de Mocambique è divenuta Patrimonio dell'Umanità UNESCO nel 1991 grazie alla sua straordinaria storia ed architettura. Situata nel nord del Mozambico, nella baia di Mossuril a soli 4 chilometri dalla costa, l'isola, di origine corallina, è stata abitata fin dall'antichità e per lungo tempo, e fino al 1898, fu capitale della colonia portoghese di Mozambico. Lunga  quasi tre chilometri ha una larghezza tra i 200 e i 500 metri. La sua posizione strategica e sicura la pose a centro delle rotte commerciali da e verso l'oriente.
Già dalla fine del 900 gli arabi ne fecero un avamposto dei loro commmerci, convivendo (non sempre pacificamente) con gli abitanti bantu, soprattutto di etnia Makua. Tra la fine del 1400 e l'inizio del 1500 i portoghesi  - in viaggio verso l'Oriente  (tra cui Vasco de Gama che vi giunse nel 1498) - occuparono militarmente l'isola, dando vita ad una vera e propria città -fortezza che nel tempo assunse sempre maggiore importanza divenendo la capitale dell'amministrazione coloniale portoghese in Mozambico. Nel 1700 il florente commercio degli schiavi diede nuova linfa e vitalità all'isola. Fu di fatto l'apertura del canale di Suez, avvenuta il 17 novembre 1869, la quale, modificando le rotte commerciali verso l'Europa, decretò la fine dell'importanza strategica dell'isola. Per la fine del secolo l'isola perse anche il suo ruolo di capitale amministrativa e la capitale divenne Laurence Marques (oggi Maputo).

Nel 1960 fu costruito un ponte - percorribile solo da mezzi leggeri - che ancor oggi congiunge l'isola alla terraferma. Oggi vi abitano quasi 15 mila persone, la maggior parte di etnia Makua quasi esplosivamente dediti alla pesca.
Nell'isola si trova quello che è ritenuto il più antico manufatto europeo nell'emisfero del Sud: la Cappella di Nossa Senhora de Baluarte, costruita in stile manuelino (o tardo gotico) e risalente al 1522.
Singolari sono i materiali e le tecniche costruttive nell'isola, rimasti gli stessi nei secoli: pietra per la fortezza, le chiese e le abitazioni più ricche (e oggi in gran parte abbandonate) e paglia (macuti) in quelle più popolari. Oggi l'isola è interamente urbanizzata e al suo interno presenta oltre agli edifici storici (tra cui la fortezza (San Sebastiao) di fine 1500 e il palazzo del 1600, oggi museo) e alle chiese, alcune moschee e un tempio induista.












Vai alla pagina di Sancara sui Patrimoni dell'Umanità in Africa 

martedì 1 dicembre 2015

La lotta contro l'AIDS

Il 1 dicembre si celebra la Giornata Mondiale della Lotta contro l'AIDS, una iniziativa voluta a partire dal 1988 dall'UNAIDS (l'Agenzia delle Nazioni Unite che si occupa di AIDS) per riflettere sulla situazione e proporre iniziative in merito alla lotta all'infezione da HIV, che a partire dal 1981 ha interessato il genere umano.

I dati attuali nel mondo dicono che:

- nel 2014 36,9 milioni di persone vivono con in virus HIV;
- solo 15,8 milioni hanno accesso alle terapie
- nel 2014 vi sono stati 2 milioni di nuovi contagi;
- nel 2014 sono morte 1,2 milioni di persone a causa dell'HIV.

Una situazione che, nonostante i molti progressi della scienza, dell'informazione e della prevenzione, continua ad essere preoccupante e che impone a tutti (governi, agenzie, istituzioni, istituti di ricerca, organizzazioni sanitarie e sociali, associazioni ed enti locali) di non abbassare la guardia.

Dal 1981 ad oggi si stimano in oltre 80 milioni le persone (ovvero lo 0,8% degli adulti 15-49 anni) che sono state contagiate dal virus HIV, di cui circa la metà (40 milioni) morte.

Naturalmente i dati non sono uniformi nel mondo, anzi.
Siamo onesti, come sempre dove si nasce incide molto. In Africa , sebbene in diminuzione rispetto al 2000, sono avvenuti 1,2 milioni di nuove infezioni (ovvero il 60% del mondo) e vi sono stati 790 mila morti (ovvero il 66% del mondo).

Vi sono due altre aree del nostro pianeta dove i casi sono in aumento rispetto al 2000, ovvero il Medio Oriente/Nord Africa (+26%) e l'Est Europa/Asia Centrale (+30%). Sostanzialmente invariati i nuovi casi in Europa e in Nord America.

In Africa, nonostante gli sforzi, la situazione è ancora molto grave. L'accesso alle terapie, per quanto in aumento, resta ancora un miraggio per molti. Gli strumenti di prevenzione e le campagne di informazione fanno fatica a raggiungere veramente tutte le aree e le complesse situazioni del continente.

Non vi sono dubbi. Il primo presidio di prevenzione dell'infezione da HIV è il preservativo.  Le campagne di informazione e la distribuzione gratuita dei preservativi (assieme ad analoghe iniziative sulle siringhe sterili per i tossicodipendenti) devono essere il fari che illuminano qualsivoglia intervento atto a prevenire la diffusione dell'AIDS. 

Ecco gli articoli di Sancara su questo tema:
- Pandemia da HIV: inizia il declino? - 24 novembre 2010 
- Ieri Giornata Mondiale contro AIDS, qualche pensiero fantasioso -  2 dicembre 2011
- Mozambico e farmaci anti AIDS - 23 luglio 2013
- Giornata Mondiale sull'AIDS: un motivo di riflessione - 1 dicembre 2014

mercoledì 25 novembre 2015

Giornata Mondiale contro la violenza sulle donne. Pensiamoci.

Le Nazioni Unite stimano che il 35% delle donne del mondo ha subito violenze, fisiche o sessuali, nel corso della propria esistenza. Un dato drammatico che deve farci riflettere tutti sui tanti mali del nostro mondo. Se poi i carnefici sono per oltre il 70% le persone più vicine alle donne (mariti, compagni e familiari) il quadro assume i tratti di una vera e propria emergenza.
La violenza degli uomini sulle donne ha antiche radici e sopravvive, seppur con molte eccezioni, negli ambienti in cui povertà, oppressione e scarsa educazione regnano sovrane. Come ebbe mondo di sottolineare negli anni '80 Thomas Sankara, che nella sua rivoluzione pose le donne al centro di ogni processo, "L'uomo, non importa quanto oppresso sia, ha un altro essere umano da opprimere, la moglie". La situazione è ancora, amaramente, molto simile.
A pagare di più sono le donne del Sud-Est asiatico (oltre 58%), dei paesi più ricchi (41,2%) dell'America del Nord (40,5%) e dell'Africa (40,1%).

La Giornata Mondiale di riflessione ed iniziative è stata istituita nel 1999 dalle Nazione Unite su pressione dei movimenti e delle associazioni delle donne, che hanno voluto ricordare il sacrificio delle sorelle domenicane Patria, Maria Argentina e Antonia Maria Mirabal, assassinate dal regime di Trujillo il 25 novembre 1960.

Le donne nel mondo pagano e hanno sempre pagato un tributo speciale. Da quando erano accusate di stregoneria, torturate e bruciate ad oggi in cui sono stuprate a migliaia durante i conflitti.  Discriminate nei loro diritti (salvo rarissime eccezioni), strette tra le responsabilità della famiglia e quella dei figli,  le donne sopportano, spesso da sole, il peso della povertà, della sussistenza e della sopravvivenza. Sono picchiate, sfruttate e stuprate, con modalità diverse, in ogni angolo del pianeta. 
Subiscono talvolta le sottili e subdole violenze degli uomini che giurano di amarle e altre volte veri e propri martiri dai potenti di turno.
Sono comprate, vendute e ammazzate. In molti luoghi senza che per loro vi sia alcuna giustizia.

Certo le giornate servono a riflettere, a comunicare emozioni ad intraprendere iniziative. Il lavoro però deve essere fatto, dai governi e dalle istituzioni, ogni giorno, ogni minuto. Un lavoro che parte dalla presenza delle donne nei posti di comando e di governo (ancora troppo poche - nel 2014 solo il 7% dei capi di stato o di governo erano donne e solo il 41% dei paesi del mondo era stato governato almeno un giorno da una donna), dal riconoscimento dei diritti, dalla lotta senza quartiere alla tratta di donne ai fini sessuali (tra cui quella nigeriana in testa), alla ferma condanna (con azioni di forza) dello stupro come arma di guerra e delle mutilazioni genitali femminili e alla prevenzione delle più subdole violenze domestiche.

Ma incidere sulle dinamiche che conducono alla violenza sulle donne significa anche sottolineare e far risaltare le imprese quotidiane delle donne nel mondo (sempre maggiori ed in ogni campo), perchè come ho avuto modo di sottolineare parlando del Ruanda, si ha l'impressione che dove gli uomini hanno fallito, sono le donne a prendere in mano la situazione!

 


venerdì 20 novembre 2015

Terrore senza confini

I fatti di Parigi hanno sconvolto l'opinione pubblica. Abbiamo assistito, quasi in diretta, ad ogni fase dell'attacco. Abbiamo avuto paura, abbiamo pianto. Abbiamo acceso candele e in molti si sono detti francesi, colorando i loro profili nei social network con il tricolore francese. Tutti abbiamo chiesto di fare qualcosa.
In poco tempo tutti si sono improvvisati strateghi ed esperti di un fenomeno così complesso che perfino chi lo fa di mestiere stenta a capire le dinamiche precise e soprattutto a trovare soluzioni o a prevenire gli atti che regolarmente avvengono nel mondo.
Abbiamo parlato - tutti improvvisamente competenti ed grandi conoscitori - di sciiti e sunniti, di integralismo, di armi, di peshmerga, di yazidi, di jihad e califfato alcuni dimostrando di avere soluzioni, semplici e immediate, per ogni problema. 
Abbiamo chiesto attacchi aerei, dichiarato guerra, chiuse le frontiere e abbiamo offeso l'islam.
Non importa che il giorno prima i terroristi - che si dichiarano dello stesso gruppo - abbiano colpito Beirut (37 morti, 181 feriti) facendosi esplodere davanti ad un santuario sciita o che qualche giorno dopo Boko Haram abbia colpito a Yola in Nigeria (32 morti, 80 feriti) o ancor prima abbia ucciso 42 persone in una moschea.
Oramai per tutti è una guerra dell'islam contro l'Europa o, ancor meglio, contro i cristiani.
Abbiamo soprattutto imparato che non tutti i morti sono uguali, i nostri valgono molto di più. E pensiamo di essere noi, europei, al centro di ogni attacco.

La realtà è ben diversa.

Il Global Terrorism Index (GTI) (un indice statistico creato dall'Università del Maryland che monitorizza tutti i casi di terrorismo nel mondo compilando una classifica per stato in base anche al numero di atti, alla quantità di morti e feriti oltre che di danni prodotti) ci dice che le 32.658 vittime del terrorismo (quasi raddoppiate rispetto al 2013 - nel 2000 erano 3329) nel 2014 si concentrano per l'80% in Afghanistan e Iraq (per puro caso due dei paesi in cui dovevamo esportare la democrazia), mentre il maggior numero di attacchi sono stati portati a termine da Boko Haram in Nigeria.

La classifica del GTI vede primeggiare in questa tristissima e orrenda classifica l'Iraq, l'Afghanistan, la Nigeria, il Pakistan, la Siria, l'India, lo Yemen, la Somalia, la Libia e la Thailandia. Paesi di aree, cultura e religioni diverse. Il primo paese europeo, il Regno Unito, si trova in 28° posizione.


Ma, quello che salta maggiormente agli occhi (e che dovrebbe farci riflettere tutti) è che il numero dei morti per terrorismo nel mondo subisce una rapida impennata dopo l'inizio della guerra civile siriana. Nemmeno gli attacchi dell'11 settembre e la successiva invasione dell'Afghanistan e poi dell'Iraq sono riusciti a determinare un simile effetto.
Appare evidente che la questione siriana (così come nel passato è stata quella palestinese) ha avuto una funzione importante nella geopolitica e nell'incremento del terrorismo. 

Ecco il Report completo del Global Terrorism Index

Ecco il sito del Global Terrorism Database, dove sono inseriti oltre 140 mila attacchi terroristici dal 1970 al 2014 in un database open-source.

mercoledì 11 novembre 2015

Burundi, facciamo attenzione

La storia ci ha insegnato che sottovalutare segnali importanti ci ha condotto spesso a piangere, dopo, morti che avremmo potuto evitare. E' ancora recente il ricordo di molti per quanto accadde in Ruanda solo vent'anni fa. Perfino durante i giorni più caldi, quando le teste rotolavanoo per strada, quando i macete amputavano le mani, quando gli stupri erano il gioco di molti e quando qualcuno incitava all'odio, pochi furono in grado di pronunciare quella parola che fa orrore: genocidio. Eppure oggi tutti sappiamo.
Poco distante da quei luoghi, in Burundi, la tensione cresce di giorno in giorno, mentre sembra quasi fastidioso parlare e mostrare quel che accade.

L'escalation è iniziata ad aprile scorso quando il Presidente, il pastore Pierre Nkurunziza aveva annunciato la volontà di candidarsi per il terzo mandato, nonostante la Costituzione lo impedisse (Sancara aveva già scritto in questo post in quell'occasione e poi un altro nel settembre scorso). A luglio, Nkuranziza è stato rieletto in elezioni ritenute farsa e i disordini si sono moltiplicati.
La tensione cresce di ora in ora e mentre il Presidente chiede alle forze speciali di "usare ogni mezzo per garantire la sicurezza" e concede ultimatum alle opposizioni che lo contestano, non mancano le forze politiche che soffiano, pericololamente, sull''odio etnico.
Inutile ricordare che solo un decennio fa, tra il 1996 e il 2006, la guerra civile in Burundi fece oltre 300 mila morti. 
A Bujumbura, la capitale del piccolo paese, oramai è guerra aperta. Come testimonia Fulvio Beltrami sull'Indro, giornalista dall'Uganda, uno dei primi e poi dei pochi, a parlare del Burundi, la situazione è caotica ed incerta.
Ma i segnali più evidenti, e preoccupanti, sono gli appelli alla carneficina o meglio al grido Kora Kora (andiamo a lavorare) che ricordano molto da vicino gli appelli a "schiacciare gli scarafaggi" che avevano accompagnato il genocidio ruandese. Oppure la negazione evidente di alcuni quotidiani locali che minimizzano i fatti, dando dei visionari a chi invita alla calma. Così come appaiono preoccupanti le sostituzioni dei vertici militari con uomini fidati e di sicura fede o, ancora, la distribuzione, sottobanco, di armi ai civili.

Insomma, siamo onesti, i segnali di qualcosa che rischia di rompersi sono tutti evidenti. Le Nazioni Unite, memori del fallimento nella crisi ruandese, hanno già convocato un consiglio di sicurezza e nominato un mediatore (il presidente ugandese Musuveni), mentre da giorni la gente ha iniziato a scappare dal Paese. Come spesso accade sono i civili, soprattutto donne e bambini, ad essere i primi  colpiti da queste crisi umanitarie. I primi profughi hanno già varcato i confini e vanno ad ammassarsi in quella complessa situazione dei rifugiati che da decenni contribuisce a creare instabilità nella regione dei Grandi Laghi.

Teniamo accesi i riflettori, perchè solo nel buio le azioni più ignobili possono prevalere.